Storia dei vangeli [3° parte]


Continuiamo ora con la terza “puntata” della storia dei Vangeli. Nei primi due episodi abbiamo visto la lingua originale in cui questi sono scritti: il greco. Abbiamo sottolineato la mancanza delle fonti originali e abbiamo accennato al gran quantitativo di documenti riportanti lezioni differenti. Abbiamo cercato di mostrare alcune interpolazioni fatte da scribi e passi interi che non si trovano nei manoscritti. Poi abbiamo trattato un po’ di storia della formazione del NT, arrivando a parlare della traduzione che fa la teologia e abbiamo concluso il secondo capitolo con alcune informazioni inerenti il vecchio testamento.

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Ora affrontiamo, sempre con principale occhio di riguardo al NT, le lezioni più discusse. Cosa s’intende per lezione? In filologia per lezione s’intende il modo come un dato passo è stato letto dall’amanuense e di conseguenza è accolto in un manoscritto o in un’edizione (il Devoto-Oli 2013).
Incominciamo con il ribadire che nel caso del Nuovo Testamento e degli scritti cristiani il lavoro della critica testuale è particolarmente complesso, in quanto:
  • Sono passati duemila anni dalla presunta data di stesura dei primi documenti cristiani, un arco di tempo lunghissimo nel quale si sono susseguite tantissime vicende storiche; i frammenti più antichi dei libri del Nuovo Testamento sono dell’inizio del II secolo, forse i testi originali vennero scritti in ebraico o aramaico nel I secolo e quindi tradotti in greco;
  • I manoscritti del Nuovo Testamento sono, in termini numerici, tantissimi. Oggi disponiamo di circa 5.700 manoscritti antichi contenenti tutto o in parte il Nuovo Testamento.

Di seguito una tabella raffigurante l’evoluzione dei documenti dal 1962 al 2005:



Manoscritti
Anno
1962
1980
1989
2003
2005
Papiri
76
86
96
116
118
Onciali
297
274
299
310
317
Minuscoli
2674
2795
2812
2877
2877
Lezionari
1997
2209
2281
2432
2433
Totale
5044
5364
5488
5735
5745




Quando si affronta l’argomento della critica testuale occorre poi tener conto del fatto che oltre ai documenti diretti dei libri del Nuovo Testamento esistono gli scritti e le opere dei padri della Chiesa, dalla fine del I secolo in poi: Papia di Gerapoli (70-150 d.C.), Giustino Martire (100-165 d.C.), Ireneo di Lione (140-202 d.C.), Clemente di Alessandria (150-215 d.C.), Origene (185-250 d.C.), Eusebio di Cesarea (265-340 d.C.), San Girolamo (340-420 d.C.) per limitarci solo agli scrittori più importanti e al V secolo. Tutti questi autori, che sono tantissimi, hanno citato nei loro scritti brani dei Vangeli, delle lettere di Paolo, degli Atti, dell’Apocalisse, dei Vangeli apocrifi (nel caso di questi ultimi spesso per confutarli con evidente intento apologetico): è stato calcolato che se il N.T. andasse improvvisamente perduto sarebbe possibile ricostruirlo con grande precisione e quasi per intero avendo a disposizione solamente le citazioni dei padri della Chiesa. Nell’utilizzo delle loro citazioni, però, occorre usare una certa cautela in quanto non sempre i padri della Chiesa citavano alla lettera i passi del Nuovo Testamento.

Inoltre, come abbiamo visto nei due articoli precedenti, non era difficile trovare copisti che ricopiavano male, oppure decidevano in autonomia di effettuare modifiche, armonizzazioni o inserire le cosiddette glosse (annotazioni a margine) all’interno del testo. Ecco alcune note di un paio di grandi padri della Chiesa a riguardo:

  • Origene (185-250 d.C.), Commentario a Matteo, 15.14 – Le differenze tra i manoscritti (dei Vangeli) sono divenute grandi, o per la negligenza di alcuni copisti o per la perversa temerarietà di altri; costoro o trascurano di correggere quanto hanno trascritto oppure, mentre correggono, allungano o abbreviano, a loro piacimento.
  • S. Girolamo (340-420 d.C.), Epistola LXXI, 5 – (I copisti) trascrivono non ciò che trovano, ma quel che ritengono essere il significato e, mentre tentano di correggere gli errori di altri, non fanno che rivelare i propri.

Per ovviare a questo è necessario analizzare i testi più antichi, ma oggi la fase di transizione dal I al II secolo non può essere studiata scientificamente su nessun documento perché non si è conservato nulla. Esistono solo alcuni piccoli frammenti papiracei; il più antico di tutti che sia stato universalmente accettato all’unanimità dagli studiosi, il papiro di Rylands P52 = P.Ryl. Gk. 457 conservato presso la John Rylands Library di Manchester e pubblicato nel 1934 da C.H Roberts, riporta in fronte e retro alcune parole del dialogo tra Gesù e Pilato prima della crocifissione. Esso è stato datato paleograficamente alla prima metà del II secolo, tra il 125 d.C. e il 175 d.C. Altri frammenti che potrebbero essere datati al I secolo dopo Cristo sono di incerta attribuzione (è il caso del frammento 7Q5 rinvenuto a Qumran nella Grotta 7), di incerta datazione (come il caso dei frammenti di Magdalen P64 o del papiro P46 contenente molte delle lettere di Paolo) oppure recano soltanto poche lettere leggibili. Un eventuale collegamento con le origini della cristianità, con il fatidico I secolo, dev’essere quindi ricercato, in assenza di ulteriori scoperte archeologiche, internamente ai testi ed esistono difatti alcuni studi linguistici che hanno messo in risalto il sostrato profondamente ebraico nella lingua e nella forma della traduzione greca del NT quasi che esso provenga da una traduzione molto fedele e letterale di un preesistente testo scritto in ebraico.

Vediamo ora di analizzare, dal punto di vista filologico, alcune della alterazioni più lampanti. Ciò per comprendere quanto il testo nelle nostre mani sia frutto di anni di studio e, a volte, di scelte compiute dagli studiosi che compongono le varie commissioni di traduzione. Prima di proseguire vorrei accennare ai problemi di trasmissione del testo che si ebbe al tempo della persecuzione di Diocleziano contro i cristiani. La repressione iniziò nel 303 d.C. ed era estesa a tutto l’impero romano in occidente e in oriente. Attraverso tre successivi editti venne ordinata la censura e la proibizione del culto cristiano e, fatto molto importante per quanto riguarda l’argomento che stiamo trattando, la distruzione dei libri sacri dei cristiani: ai vescovi delle varie Chiese venne imposto di consegnarli per l’eliminazione al fine di non incorrere in pene severissime. Gli editti vennero applicati con rigore soprattutto in Oriente, dove la persecuzione durò molto più a lungo, e c’è da supporre che abbiano raggiunto in parte il proprio scopo. All’abdicazione di Diocleziano (305 d.C.) Costanzo Cloro e Massenzio decretarono la fine delle repressioni in Occidente ma Galerio (che era stato il vero istigatore di Diocleziano) e Massimino andarono avanti in Oriente nelle zone di loro competenza fino al 311 d.C.: solo quando ormai prossimo alla morte Galerio decise di concedere libertà di culto ai cristiani. Massimino, nel frattempo succeduto a Galerio, proseguì però la repressione anche se durante questo periodo abolì la pena di morte per i cristiani, almeno nei casi ordinari. Complessivamente, quindi, le repressioni di questo periodo sono durante una decina di anni. Quando esse finalmente si placarono al tempo di Costantino si pose evidentemente il problema di ricostruire i documenti che non si erano salvati. Ciò ha determinato, com’è immaginabile, un’ulteriore produzione di lezioni discordanti dalla versione originale.
Ora vediamo come tutto ciò si è tradotto in pratica, parlando in particolare delle varie lezioni differenti che potrebbero influire sulla teologia.

  • Il passo Giovanni 6:47 recita: “In verità in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna.”Abbiamo riportato il passo così come viene tradotto dalla Bibbia C.E.I. ricavata secondo i più antichi manoscritti (e secondo i moderni principi della critica testuale). In realtà questa lezione è testimoniata solo da pochi manoscritti, dai papiri P66 e P75, dal Codex Vaticanus, dal Codex Sinaiticus, dal Codex Koridethianus e da altri quattro o cinque documenti. Tuttavia questi manoscritti, in part. i primi quattro, sono considerati molto affidabili dalla critica moderna, come vedremo in seguito, e questa è la ragione per cui il passo viene riportato oggi in questa variante. Ma la maggior parte dei restanti manoscritti, considerati testualmente meno attendibili, non riporta Giovanni 6:47 in questa forma, bensì attesta: “In verità in verità vi dico: chi crede in me ha la vita eterna” ponendo l’enfasi sul ruolo di Gesù e sulla sua divinità e sul fatto che la vita eterna non si ottiene genericamente “credendo” ma “credendo in Gesù”. E’ possibile che ci sia stato un errore involontario nella trasmissione: la frase “chi crede ha la vita eterna” si scrive in greco: Ð pisteÚwn œcei zw¾n a„ènion. mentre la variante lunga “chi crede in me ha la vita eterna” sarebbe: Ð pisteÚwn eij eme œcei zw¾n a„ènion. con tre parole corte graficamente molto simili e tutte inizianti per e; le prime due possono essere state inavvertitamente omesse, si tratta di un errore noto come homoioarcton. In genere poi il verbo credere in Giovanni ha sempre un oggetto, nel caso di dichiarazioni come questa, non è mai usato da solo (cfr. Gv 6:29, 9:18, 10:38). L’autore poteva eventualmente specificare “credere nel Padre” se non voleva effettivamente dire di credere in Gesù. Siamo qui davanti a un dilemma di tipo teologico: la critica moderna in questo caso imporrebbe di omettere la specificazione “in me” alterando in modo sostanziale il significato della frase e una Bibbia come quella della Conferenza Episcopale Italiana ha effettivamente seguito questa strada.
  • Leggendo il versetto Giovanni 1:18 secondo la traduzione della Bibbia C.E.I. abbiamo “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato”. Questa variante è attestata da molti manoscritti, tuttavia esistono altre due versioni di questo passo. La prima lezione sarebbe: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Dio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” ed è testimoniata da manoscritti che la critica moderna considera molto autorevoli quali il papiro di Bodmer P75 e il Codex Vaticanus (ed altri meno importanti). Ancora più difficile è la seconda variante: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio un Dio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” che è testimoniata da altrettanti manoscritti importanti quali il papiro di Bodmer P66 ed il Codex Sinaiticus (ed altri meno “illustri” manoscritti). In questo caso documenti ritenuti testualmente molto pregiati propendono per Dio al posto di Gesù così che si pone la domanda: quale versione del passo considerare più attendibile, cioè vicino all’originale?
  • In Giovanni 6:69 troviamo alcune lezioni molto significative. Nella prima variante Pietro in persona dice a Gesù: “Noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, Cristoj o uioj tou Qeou tou zwntoj. Una seconda variante attesta invece “Noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”, Cristoj o uioj tou Qeou. In una citazione di Tertulliano troviamo soltanto “tu sei il Cristo” mentre in una versione siriaca del passo troviamo “tu sei il Figlio di Dio”. Tutte queste varianti vengono trascurate dalla traduzione C.E.I. a motivo del fatto che esistono manoscritti considerati più affidabili che riportano diverse lezioni. Il papiro P75, il Codex Vaticanus e il Codex Sinaiticus ad esempio fanno dire a Pietro: “Noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il santo di Dio”, agioj tou Qeou, e questa è la forma scelta nella traduzione italiana della Bibbia della C.E.I. nella quale non si menziona né il riferimento al titolo di Cristo, né il riferimento a Gesù come “Figlio”. Nel papiro P66 Pietro dice invece: “Noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Cristo, il santo di Dio”, Cristoj o agioj tou Qeou. E’ evidente che scrivere “santo” piuttosto che “Figlio” di Dio può generare sospetti sul riconoscimento di Gesù come Dio da parte di Pietro, piuttosto che come profeta o uomo illuminato da Dio. In questo caso i manoscritti ci sono stati tramandati in varie forme e la critica propende per l’espressione riportata anche dalla versione C.E.I. perché attestata da manoscritti dell’area egiziana (testo neutrale alessandrino) considerati più attendibili e autorevoli.  Questo passo è teologicamente molto importante in quanto questa frase di Pietro viene riportata al termine della narrazione dell’abbandono di molti seguaci di Gesù a causa della introduzione dell’eucaristia (cfr. Gv 6:60 “Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: «Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?» e Gv 6:66 “Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui”). La presa di posizione di Pietro e la sua dichiarazione di fedeltà a Gesù viene accentuata o sminuita a seconda del tipo di scelta che si opera nella accettazione della variante.

Queste sono solo tre, tra le più sostanziose, lezioni riconducibili al solo vangelo di Giovanni, ma come ci sono queste, ve ne sono tante altre riconducibili a Marco, Matteo e Luca. Ovviamente per non tediare troppo i lettori (il nostro scopo è solo quello di dare delle indicazioni e fornire degli spunti di riflessione) non abbiamo esaurito tutto il discorso riguardante l’analisi filologica dei documenti in nostro possesso. 
Ciò preannuncia il quarto “film”, il cui scopo sarà quello di fornire informazioni legate ai metodi oggi usati per determinare quale lezione utilizzare e di indicare velocemente come il canone neo-testamentario si sia formato, in modo da chiudere questo ciclo legato alla storia del N.T.

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