Filologia ed esegesi Vangelo Secondo Giovanni 2,1-11

ΚΑΤΑ ΙΩΑΝΝΗΝ (Novum Testamentum Greace 28° Edition)
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1Καὶ τῇ ἡμέρᾳ τῇ τρίτῃ γάμος ἐγένετο ἐν Κανὰ τῆς Γαλιλαίας, καὶ ἦν ἡ μήτηρ τοῦ Ἰησοῦ ἐκεῖ· 2ἐκλήθη δὲ καὶ ὁ Ἰησοῦς καὶ οἱ μαθηταὶ αὐτοῦ εἰς τὸν γάμον. 3καὶ ὑστερήσαντος οἴνου λέγει ἡ μήτηρ τοῦ Ἰησοῦ πρὸς αὐτόν· οἶνον οὐκ ἔχουσιν. 4[καὶ] λέγει αὐτῇ ὁ Ἰησοῦς· τί ἐμοὶ καὶ σοί, γύναι; οὔπω ἥκει ἡ ὥρα μου. 5λέγει ἡ μήτηρ αὐτοῦ τοῖς διακόνοις· ὅ τι ἂν λέγῃ ὑμῖν ποιήσατε. 6ἦσαν δὲ ἐκεῖ λίθιναι ὑδρίαι ἓξ κατὰ τὸν καθαρισμὸν τῶν Ἰουδαίων κείμεναι, χωροῦσαι ἀνὰ μετρητὰς δύο ἢ τρεῖς. 7λέγει αὐτοῖς ὁ Ἰησοῦς· γεμίσατε τὰς ὑδρίας ὕδατος. καὶ ἐγέμισαν αὐτὰς ἕως ἄνω. 8καὶ λέγει αὐτοῖς· ἀντλήσατε νῦν καὶ φέρετε τῷ ἀρχιτρικλίνῳ· οἱ δὲ ἤνεγκαν. 9ὡς δὲ ἐγεύσατο ὁ ἀρχιτρίκλινος τὸ ὕδωρ οἶνον γεγενημένον καὶ οὐκ ᾔδει πόθεν ἐστίν, οἱ δὲ διάκονοι ᾔδεισαν οἱ ἠντληκότες τὸ ὕδωρ, φωνεῖ τὸν νυμφίον ὁ ἀρχιτρίκλινος 10καὶ λέγει αὐτῷ· πᾶς ἄνθρωπος πρῶτον τὸν καλὸν οἶνον τίθησιν καὶ ὅταν μεθυσθῶσιν τὸν ἐλάσσω· σὺ τετήρηκας τὸν καλὸν οἶνον ἕως ἄρτι.  11Ταύτην ἐποίησεν ἀρχὴν τῶν σημείων ὁ Ἰησοῦς ἐν Κανὰ τῆς Γαλιλαίας καὶ ἐφανέρωσεν τὴν δόξαν αὐτοῦ, καὶ ἐπίστευσαν εἰς αὐτὸν οἱ μαθηταὶ αὐτοῦ.






SECONDO GIOVANNI (Testo C.E.I 2008)
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1Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. 2Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. 3Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». 4E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». 5Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». 6Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. 7E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. 8Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. 9Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo 10e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». 11Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.






Ho scelto questo brano perché tra tutti quelli proposti nei vangeli, per me, ha sempre rappresentato un problema di comprensione. Che vi sia stato oppure no questo segno, ve lo dico spassionatamente, non mi è mai importato. Se poi consideriamo che in Giovanni ci sono sette “miracoli” (segni finalmente tradotto), quindi la pienezza (il numero sette vuol dire la pienezza), non riuscivo a capire come mai questi iniziassero con questo, che apparentemente risulta piccolo rispetto ai restanti. Seguendo il corso di filologia ed esegesi, avendolo studiato volutamente, finalmente sono riuscito a capirlo. 
Normalmente questo brano viene letto come la sovrabbondanza della gioia che Gesù regala a chi crede in lui, e in linea di massima ci può stare. Se però si vuole scavare più a fondo, ci sono delle indicazioni che non coincidono con quest’interpretazione. Per esempio  l’utilizzo dei numeri, il sei è associato alle giare per la purificazione (ὑδρίαι), non anfore (che è ben diverso come immagine, le anfore creano un’immagine di qualcosa che può essere spostato, la giara è un contenitore di dimensioni più grandi e, qui, sono pure di pietra, per cui non identificate questi oggetti con quanto l’iconografia classica trasmette). Questo valore rappresenta, nella simbologia dei numeri, l’imperfezione, per cui perché specificare questo dato particolare se quanto si voleva trasmettere era la pienezza della gioia? Perché non usare il sette che rappresenta la pienezza, la totalità?  Cosa vuole trasmetterci Giovanni? 
Nell’interpretazione del brano, il lettore non deve lasciarsi trasportare dalle sue fantasie, immaginare o creare qualcosa che non c’è, ma si deve lasciare condurre dalle chiavi di lettura che l’evangelista dissemina nel suo vangelo. Faccio alcuni esempi per comprendere quanto detto. Alcune chiavi che si trovano nei vangeli sono i numeri: cinque, sei, sette, ecc. Bisogna stare attenti, però, se il numero è usato singolarmente, oppure seguito dalla parola giorni o altre simboliche. Poi ci sono alcuni termini tipo “villaggio”, il cui significato è incomprensione o ostilità all’accoglienza del messaggio di Gesù; oppure “mare” che significa andare verso i pagani per essere liberarli, eccetera. 
Fatto questo breve cappello, vediamo adesso di leggere questo brano di Giovanni, lasciandoci guidare versetto, per versetto. Avverto che il brano non è di facile lettura, è abbastanza complesso in quant’è ricchissimo di simboli.

Scrive l’evangelista: “il terzo giorno”, anzitutto l’evangelista mette una data, il terzo giorno. 
Giovanni detta i giorni, si legge all’inizio del versetto 1,29 “Il giorno dopo” e poi al versetto 1,35 “il giorno dopo” e qui al versetto 2,1 “il terzo giorno”. Se proviamo a stilare una somma di queste tre date possiamo vedere che esiste il primo giorno, poi il giorno dopo, poi il giorno dopo ancora e infine il terzo giorno. Sommando si ottiene il valore 6, quindi Giovanni sta collocando l’evento delle nozze nel sesto giorno. Una cosa importante da sapere è che al tempo della stesura dei vangeli non esisteva l’iper link per fare i collegamenti tra brani (alla Wikipedia per intenderci), ma si usavano strategie ben precise quali richiamare parole o concetti presenti nel testo che si voleva riportare alla mente del lettore. Il sesto giorno richiama il libro della genesi, esattamente il giorno in cui Dio creò l’uomo. Quindi Giovanni vuole collocare quest’episodio alla luce di quell’evento. Già in Gv 1,1 l’evangelista richiama la genesi: il prologo inizia con Ἐν ἀρχῇ = in principio, esattamente come genesi 1,1. Questo è il sistema per far collegare due passi.
Inoltre il terzo giorno, nella tradizione biblica, era il giorno in cui Dio, sul monte Sinai, aveva manifestato la sua gloria. Sul monte Sinai, c’è scritto nel libro dell’Esodo, al terzo giorno Dio manifestò la sua gloria. Quindi subito dall’inizio Giovanni ci fornisce indicazioni preziosissime (storicamente che fosse il terzo, il quarto o il nono giorno non ci interesserebbe, ma leggendo il vangelo in modo figurato, queste date diventano essenziali). Quindi abbiamo il terzo giorno che significa che Dio manifesta la sua gloria (ecco perché, unico episodio nel vangelo di Giovanni, al termine abbiamo “e Gesù manifestò la sua gloria”) e abbiamo il sesto giorno che rimanda alla creazione dell’uomo.

vi fu una festa di nozze”. Altra chiave di lettura. Bisogna sapere che il rapporto tra Dio e il suo popolo, dal profeta Osea in poi, viene raffigurato come un rapporto matrimoniale: Dio era lo sposo e Israele la sua sposa. Quindi queste nozze ci rimandano a questo patto di alleanza tra Dio e il suo popolo.

a Cana di Galilea”. Introduco una nota filologica, Cana (Κανὰ) non è presente nel papiro p75 che riporta solo τῇ Γαλιλαίας (in Galilea). Finita questa nota, cerchiamo di capire perché specifica questo luogo, di questo villaggio o città chiamato/a Cana di Galilea . Se si vuole trovare un riscontro storico di questa località, non si riesce. Come, giustamente, si può leggere anche nelle pagine di Wikipedia, dedicate a Cana (http://it.wikipedia.org/wiki/Cana), non si sa la corretta posizione storico-geografica. Per permettere ai pellegrini di esercitare le loro devozioni, i francescani, intorno al XIII secolo, hanno identificato una possibile collocazione e l’hanno chiamato Cana di Galilea, ma questo insediamento non esiste dal punto di vista storico-geografico. Al di là di un villaggio o di un paese dal punto di vista storico, all’evangelista interessa il significato del termine “Cana”, che, in ebraico, significa “acquistare” e si rifà ad un’espressione dell’Antico Testamento dove si dice che Israele è il popolo acquistato da Dio.

e c’era la madre di Gesù”. Tutti i personaggi presenti in quest’episodio, sono anonimi, l’unico personaggio che porta il nome è Gesù. Quando un personaggio è anonimo significa che, al di là dello spessore storico, è un personaggio rappresentativo. Allora qui ci sono delle nozze, che rimandano all’alleanza tra Dio e il suo popolo, e li sta la madre, non è nominata come Maria, che poteva essere un riferimento storico, ma viene solo specificato che li c’era la madre di Gesù, cioè la provenienza da parte di Gesù. Il problema, in questi casi, è che l’iconografia, la tradizione, eccetera possono portare ad aggiungere particolari che non sono presenti nei vangeli. In questo caso la tentazione di fornire un nome a questa madre è forte, ma vedremo che, in questo passo, mai Giovanni chiamerà la madre di Gesù con il suo nome.

Fu invitato alle nozze anche Gesù”. Qui l’evangelista ci fornisce un’indicazione preziosa. Gesù, il nuovo sposo (Giovanni il battista identificherà in Gesù colui che deve sposare il popolo d’Israele) non sta nelle nozze come il festeggiato, Gesù non appartiene a queste nozze, ma vi partecipa come invitato. Quindi queste nozze rappresentano ancora la vecchia alleanza, l’alleanza che era fallita perché tra Dio e il suo popolo non c’era più comunicazione, non c’era più colloquio. “con i suoi discepoli.

Venuto a mancare il vino”. Qui in א (Codex Sinaiticus 330-360 dC. circa) abbiamo una lezione differente: οἶνον οὐκ εἶχον, ὅτι συνετελέσθη ὁ οἶνος τοῦ γάμου. Εἶτα. Letteralmente: οἶνον  = vino; οὐκ = non; εἶχον = avere; ὅτι = che; συνετελέσθη = per portare a termine abbastanza; ὁ = il; οἶνος = vino; τοῦ = il; γάμου = matrimonio; Εἶτα = dopo. Stando a questa lezione, sembrerebbe che il vino fosse presente, ma non sufficiente per portare a termine il banchetto. Poiché cambierebbe il significato esegetico e considerando che solo la Tischendorf 8th Ed. with Diacritics, tra quelle che conosco, usa questa “versione”, noi ci atterremo alla lezione standard. 
Nel rito matrimoniale ebraico, il punto culminante è quando lo sposo e la sposa bevono entrambi  il vino da un unico calice, perché il vino, nella simbolica ebraica, è figura dell’amore (cfr Os. 2,21-24; Is. 62,5.8.9). Successivamente aver bevuto da questo calice, lo stesso viene gettato a terra per essere rotto, evitando così che altri possano bere dallo stesso, infrangendo l’amore precedentemente suggellato. Quindi il vino rappresenta l’amore che c’è tra gli sposi. Ebbene, qui c’è un matrimonio e manca il vino. In quest’alleanza tra Dio e il suo popolo è venuto a mancare l’amore. E poi vedremo le cause, vedremo la responsabilità di questa mancanza d’amore.

“la madre di Gesù gli disse”. Ed ecco che Giovanni per la seconda volta fa riferimento alla madre di Gesù senza nominarla. A questo punto del brano l’evangelista aveva già presentata la madre di Gesù, poteva mettere Maria. No, l’evangelista sta attento: non è un raccontino della mamma che si preoccupa per qualcosa, è qualcosa di più serio. La madre si rivolse a lui e, notate l’espressione: avrebbe dovuto dire “non abbiamo più vino”, e invece dice “non hanno più vino” 

non hanno più vino”. Questa frase, come anticipato sopra, non è alla prima persona plurale, ma alla terza persona plurale. Qui è un chiaro messaggio della madre che si dissocia da questa mancanza di vino. Sono queste delle nozze, dove manca il vino e lei è presente. Ecco perché la logica ha diritto di presenza nella lettura dei vangeli. Se io sono invitato a nozze e mi accorgo che in questa festa manca la torta nuziale (per portare l’argomentazione alla nostra tradizione), non dico “non hanno la torta nuziale”, ma sono portato a dire che “non abbiamo la torta nuziale”. Tornando al testo, la madre non dice: “non abbiamo più vino”, ma “non hanno più vino”, cioè non c’è più l’amore tra Dio e il suo popolo, dissociandosi da questa mancanza.

E Gesù le rispose: che cosa importa a me e a te, donna?”. Qui purtroppo devo dire che la traduzione della C.E.I, che finora ho tenuto buona, non è perfetta. Questa frase in greco è τί ἐμοὶ καὶ σοί, γύναι che letteralmente si traduce “che importa a me e a te, donna sposata?” e non “Donna, che vuoi da me?”. Il significato, e adesso lo vedremo, è differente. 
Incominciamo constatando che mai nella letteratura si è trovato un figlio che si rivolgesse alla madre in questa maniera, che sembra dura, ostile. Perché si rivolge alla madre chiamandola donna? Il termine “donna” (γύναι) significa letteralmente, “moglie, donna sposata”. Nel vangelo di Giovanni ci sono tre personaggi femminili ai quali Gesù si rivolge chiamandoli “donna”, che significa “moglie”:

  1. Una è la madre, che rappresenta l’Israele sempre fedele all’antica alleanza, quell’Israele che ancora conserva questo rapporto d’amore [che ha il vino] con Dio. Per questo prima la madre prende le distanze dalla mancanza di vino. Quindi è l’Israele dal quale Gesù è venuto: Gesù proviene da un Israele che è stato fedele a Dio. Questo è il primo personaggio al quale Gesù si rivolge chiamandola donna, che significa moglie.
  2. Il secondo personaggio femminile al quale Gesù si rivolgerà chiamandola donna è la Samaritana. Anche l’episodio della Samaritana, ognuno lo può interpretare come vuole, ma non è, come piace molto ai bacchettoni, Gesù che fa un rimprovero a una donna un po’ vivace (le dice: hai avuto cinque mariti e anche quello che ora hai non è il tuo). I Vangeli non scendono a scadimenti di lezioni di moralità. La Samaria era la regione in cui, essendo stata popolata a forza di coloni da parte della Siria, questi coloni avevano portato le loro divinità. In Samaria, sul monte Garizim, si adorava Yahvè, il Dio d’Israele, e su altri cinque monti, esistevano altri cinque templi ad altre divinità. L’idolatria, nell’Antico Testamento, viene definito adulterio, perché se il rapporto tra Dio e il suo popolo è quello di un matrimonio, ricorrere ad altre divinità è adulterio. Questa donna adultera, ripeto non è una donna un po’ vivace che cambia un marito dopo l’altro, ma in questa donna si rappresenta la tragedia della Samaria che è adultera: adora Yahvè ma anche altre cinque divinità. Gesù è lo sposo che va a riconquistare la sposa ma non attraverso le minacce, per la legge l’adultera andava lapidata, ma attraverso un’offerta di un dono ancora più grande. E l’evangelista struttura il brano della samaritana prendendo spunto dal cap. 2 del profeta Osea. Osea è profondamente innamorato della moglie, ma questa donna, pur avendogli dato due figli, ogni tanto fugge e va in cerca di nuovi amanti. L’ennesima volta, il povero Osea si stanca, corre dietro a questa donna, l’afferra e le rinfaccia tutti i crimini da lei compiuti, e sta arrivando alla sentenza, ricordo che la sentenza per una donna adultera era la morte, e le dice: hai fatto questo, sei una madre scellerata, sei una moglie scostumata, e per ciò, anziché dire: ti ammazzo, il povero Osea dice: andiamo a fare un altro viaggio di nozze, proviamoci ancora una volta. E Osea aggiunge: e non mi chiamerai più padrone mio, ma marito mio. Nella lingua aramaica marito si dice “baal” che significa: padrone. Osea comprende che se questa donna gli scappava è perché aveva un rapporto, non con un marito, ma con un padrone. Allora anziché un castigo, Osea le propone un nuovo viaggio di nozze: andiamo nel deserto, solo noi due, io e te. Quindi quando lo sposo ritrova l’adultera, non la punisce ma le offre ancora amore. Cosa fa Gesù con la samaritana? Quando l’incontra le dice: se tu conoscessi il regalo che sto per farti, il dono di Dio. Questo è il secondo personaggio femminile al quale Gesù si rivolge chiamandola donna, cioè è l’adultera che lo sposo riconquista con un’offerta ancora più grande di amore.
  3. Infine, il terzo personaggio femminile al quale Gesù si rivolgerà chiamandola “donna”, sarà Maria di Magdala che rappresenta la sposa della nuova comunità. 

Quindi abbiamo l’antico Israele fedele al Signore, l’Israele adultero che Gesù riconquista con il suo amore, e la nuova comunità, quindi l’antico e il nuovo che si susseguono. Allora Gesù si rivolge alla madre chiamandola donna, che significa moglie, e le dice: “che importa a te e a me”. Gesù qui prende le distanze dalla vecchia alleanza, così come vissuta dal popolo d’Israele, e lo ricorda anche a sua madre, che come abbiamo visto rappresenta la fedeltà al patto. Gesù non è venuto a purificare le istituzioni, è venuto a instaurare qualcosa di nuovo che vada oltre le istituzioni, Gesù è venuto per eliminarle (e qui so già che molti di voi chiuderanno la lettura, ma questo è il messaggio).

non è ancora giunta la mia ora”. L’ora di Gesù, nel vangelo di Giovanni, sarà quella della sua morte, della crocifissione, che anziché essere descritta come una scena di morte, lo vedremo fra poco, viene descritta come un’esplosione di vita. Credevano di avere ammazzato Gesù, ma morendo comunica e trasmette vita. 

Sua madre disse ai servitori: qualunque cosa vi dica, fatela”. Ecco, per la terza volta Giovanni  ci presenta la madre senza chiamarla per nome. Inoltre è interessante che la madre compaia tre volte, quindi Giovanni vuole indicarci la completezza di questa figura. Ma qui l’evangelista vuole richiamare un altro fatto. Quando Mosè promulgò, a nome di Dio, l’alleanza sul Sinai, scrive il libro dell’Esodo: “quanto il Signore ha ordinato noi lo faremo” (cfr Es. 24,7). Mosè ha proposto l’alleanza al suo popolo e il popolo dice: quanto il Signore ha detto, noi lo faremo. Le stesse identiche parole che la madre rivolge ai servi: quanto vi dice, qualunque cosa vi dica, fatela. Anche senza conoscere i piani di Gesù, la madre afferma che bisogna accettare Gesù e accettare senza condizioni il suo programma: quanto vi dirà, fatelo! Il fatto di aver nominato la madre di Gesù tre volte e di averle lasciato il compito di esortare a seguire suo figlio, è segno che Giovanni vuole indicare in questa donna la pienezza di chi è disposto ad accettare il nuovo, la buona notizia.

Vi erano la sei giare di pietra” Il numero sei, quand’è da solo, significa sempre ‘ciò che è imperfetto’, perché la perfezione è rappresentata dal numero sette. Allora erano collocate lì sei giare di pietra, attenzione al testo, a volte le rappresentazioni artistiche/pittoriche ci deviano dall’interpretazione, normalmente i pittori rappresentano sei anfore di coccio. Qui, invece, l’evangelista ci vuole dire che era presenti contenitori inamovibili, qualcosa di pesante, di duro. Inoltre le giare, come le anfore, erano di terracotta, qui invece sono di pietra, un chiaro richiamo alle tavole della legge.

per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a cento litri”. Questo è il versetto principale di tutto il testo. I brani dei vangeli sono costruiti ad arte secondo uno schema ben preciso, dove la prima riga corrisponde all’ultima, la seconda alla penultima e così via, fino che c’è un versetto centrale. Questo è il versetto centrale, principale di tutto questo brano. Quindi c’erano sei giare di pietra destinate alla purificazione dei giudei capienti un centinaio di litri ciascuna. Se noi prendiamo e valutiamo casa nostra, non credo che ci sia qualcuno che utilizzi vasche per 600 litri. Per cui cosa servivano questi contenitori? Qui l’evangelista spiega perché manca l’amore tra Dio e il suo popolo. Chi è che ha ucciso l’amore tra Dio e il suo popolo. Bisogna sapere che per la tradizione del popolo d’Israele, Dio sta nella sfera della santità totale, in altre parole lui è la purezza assoluta. Sempre per la tradizione, l’uomo può rivolgersi a Lui soltanto quand’è nella condizione rituale di purezza. Ma per la legge, che nel corso dei secoli la casta sacerdotale israeliana ha distorto, bastava un niente per diventare impuro. Non occorreva commettere qualcosa di male, ma le semplici funzioni fisiologiche rendevano l’uomo impuro. Pensate, alla condizione tragica della donna, che per il fatto fisiologico delle mestruazioni era impura. Poteva unirsi con il marito soltanto al termine delle mestruazioni, ma l’unione con il marito la rendeva impura; anche il parto la rendeva impura, 33 giorni se il bimbo era maschio o 66 giorni se era femmina. Quindi la donna era in una condizione di perenne impurità. In altre parole, più vicine a noi, si era creato un solco talmente profondo tra la natura di Dio che stava nei cieli e l’uomo, che l’uomo si considerava un verme. Infatti nel libro di Giobbe, l’uomo definisce se stesso un verme, perché per quanto io possa fare, non sono mai sicuro di essere a posto con questo Dio. 
Guardate che, più o meno, era anche per noi, prima del Concilio Vaticano II. Il concetto di grazia non faceva sapere mai se si era in grazia di Dio oppure no, perché bastava un pensiero che ti passava per la testa, che non eri più sicuro se eri nella grazia o no.
Ecco questa è l’immagine del Dio della religione. Gli uomini avevano bisogno di purificarsi continuamente. 600 litri, un’enormità di acqua, perché non erano mai sicuri di meritare l’amore di Dio: il concetto era che l’amore di Dio va meritato con i propri sforzi, con i propri impegni e a forza di tutte queste purificazioni rituali. Quindi la mancanza dell’amore tra Dio e il suo popolo, è dovuta a una religione che ha deformato il volto di Dio, lo ha reso inaccessibile, l’ha reso esigente e l’uomo non si sente mai a posto. 
Si spiega così perché l'evangelista usa la simbologia del numero sei e del termine pietra. L'indicazione è quella dell'imperfezione della legge, della sua totale inutilità. 

E Gesù disse loro: riempite d’acqua le giare;”. Veniamo a sapere che le giare erano vuote. C’erano sei giare per la purificazione dei giudei, atte a rendere l’uomo puro, ma sono vuote, quindi perfettamente inutili. L’evangelista vuole dire che tutta questa purificazione era inutile, perché poi, anche se ti purificavi, non rendeva possibile la comunicazione con Dio.

e le riempirono fino all’orlo”. Gesù fa prendere coscienza al popolo che queste giare sono vuote. Facendole riempire fino all’orlo Gesù indica che lui sta per offrire la vera purificazione che, questa è la novità portata da Gesù ed è il significato di questo brano, non consiste nei meriti dell’uomo, ma nel dono gratuito dell’amore da parte di Dio. Questo è il cambio, è la liberazione che Gesù fa dalla religione portandoci a consapevolizzarcene.

Disse loro di nuovo: ora attingete e portatene a colui che dirige il banchetto. Ed essi gliene portarono”. Prima di tutto, l’evangelista non ha detto che l’acqua presente nelle giare si è trasformata in vino. Fin qui ha solo parlato di acqua e, anche quando Gesù ordina di attingere, i servi attingono acqua, non vino. Questo è da tenere ben presente. Qui, poi, viene presentato un altro personaggio. Abbiamo visto la madre e ora il “maestro di tavola” (tutti rigorosamente senza nomi). 
Nota da sapere è che i matrimoni, nel mondo palestinese, erano aperti a tutto il paese, non c’erano le partecipazioni, tutto il paese era invitato. Per dirigere il matrimonio c’era un maestro di tavola, era la persona che doveva controllare se c’erano vivande a sufficienza e se c’era il vino a sufficienza. Bisogna tenere anche presente che il termine greco che indica ‘maestro di tavola (ἀρχιτρικλίνῳ), ha la stessa radice dalla parola che indica il  sommo sacerdote (ἀρχιεpεὐς). Quindi l’allusione dell’evangelista al potere spirituale è molto, molto precisa: colui (coloro) che doveva sovrintendere al corretto funzionamento del matrimonio, del rapporto tra Dio e il suo popolo, non si è accorto della mancanza del vino, dell’amore. La denuncia che emerge qui è grave: per questi soggetti non c’è nulla di anomalo nel fatto che Dio si sia allontanato dal popolo a causa della legge che è stata deformata. Per loro, che il popolo non sperimenti l’amore di Dio, non interessa nulla. Soltanto il popolo rappresentato dalla madre, avverte questa sofferenza.
Quindi l’evangelista ci sta facendo vedere la situazione tragica della vita del popolo: da una parte c’è un popolo, rappresentato dalla madre, che sente che manca il vino (l’amore) e dall’altra le autorità preposte che non se ne accorgono perché per loro va bene così. Il terrore che le persone possano entrare in comunicazione con Dio, che possano aprire gli occhi e vedere che Dio non ha incaricato nessun mediatore tra Lui e le persone, che Dio non ha stabilito nessuna regola per amare le persone, vorrebbe dire, per loro, avere i giorni contati. Allora che la gente stia nell’ignoranza è bene, così stanno sottomessi al sistema. Non solo, ma questo soggetto protesta assaggiata l’acqua tramutata in vino.

Come ebbe assaggiato l'acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto”. Notate che le giare non conterranno mai il vino di Gesù: l’acqua si tramuta in vino quando viene tolta dalla giara. Quindi le giare, simbolo della legge e della purificazione, non conterranno mai l’amore nuovo.

- il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l'acqua (notate attingono l’acqua, non attingono il vino) - chiamò lo sposo“. Ecco altri personaggi senza nome: lo sposo in primis e i servitori. Inoltre vorrei farvi notare la parola usata da Giovanni per indicare i servi. L’evangelista utilizza la parola greca διάκονοι (diakonoi) che si traduce essere servitori e non servi. Una sfumatura che vuole dire molto, in quanto sotto intende la libertà di scelta. Una scelta che è stata quella di seguire quanto chiesto da Gesù. Notate che l’acqua si trasforma in vino mentre questi diaconi la trasportano, qui Giovanni è chiaro, chiunque accetti liberamente la consapevolizzazione dell’Amore ricevuto, diventa portatore d’Amore a sua volta.
Inoltre l’azione del chiamare lo sposo viene descritta con il verbo greco φωνεῖ (phonei) il cui significato è “suono della voce”, “verso”, oggi diremmo un mugugno. Quindi l’evangelista ci vuole dire che questa chiamata non è per congratularsi con lo sposo, ma vuole riprenderlo, vuole esporre il suo disaccordo derivante dal fatto che gli abbiano portato vino buono, vino nuovo alla fine. Il maestro di tavola è succube del sistema dare-avere con Dio, non capisce e non accoglie un regalo gratuito.

e gli disse: Tutti mettono in tavola il vino buono all'inizio e, quando si è già bevuto molto”. Qui, nel papiro p75, la parola πρῶτον (prima, all’inizio) non è presente, ma lasceremo correre questa lezione per utilizzare quella standard. Il passo, in realtà, sarebbe da tradurre ubriachi (μεθυσθῶσιν), quindi Giovanni ci vuol far sapere che la gente ha già alzato abbondantemente il gomito (per usare un’immagine).

quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora”. Rivolgendosi allo sposo, il maestro di tavola manifesta in parte la sua sorpresa, ma è soprattutto il suo rimprovero ad avere la meglio, perché il vino che arriva adesso, il vino nuovo, è migliore dell’antico. Nell’istituzione si vede sempre con diffidenza il nuovo: il meglio appartiene al passato. Il nuovo, tutto quello che viene proposto come nuovo, viene sempre visto con sospetto, diffidenza e sempre ostacolato. Il maestro non è d’accordo nell’ordine con il quale i vini vengono offerti. Il suo ragionamento è logico: quando la gente arriva al matrimonio, offri il vino buono, poi quando ormai è ubriaca dagli quello più scarso, tanto ormai il palato non distingue più il sapore. Quindi per lui è impossibile che il meglio possa venire dopo.

Questo è il messaggio che vuole darci Giovanni. Un annuncio in cui far trasparire la novità dell'insegnamento di Gesù: un Dio che dona Amore senza chiedere indietro nulla, un Dio che supera le leggi (l’imperfezione delle anfore della purificazione fatte di pietra non conterranno mai il vino), va oltre, non la considera. 
Grazie alla madre e ai servi, che si fanno mezzo, il nuovo può sopraggiungere al vecchio. Mentre chi deve sovrintendere, arroccato sulla sue idee, rifiuterà, ostacolerà il nuovo, in quanto rischia da far perdere la posizione, diremmo oggi!

tenuto da parte”. Con questa frase Giovanni si vuole ricollegare alla consegna dello Spirito di Gesù sulla croce. Ebbene, nel vangelo di Giovanni si legge che Gesù, reclinato il capo, spirò. Ma spirare in greco vuol dire consegnare lo spirito, quindi va riletto con “consegnò lo spirito”. Ecco, lo spirito l’ha tenuto in serbo sino a ora: non è una scena di morte ma è una scena di vita.

Questo, a Cana di Galilea, fu l'inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”. Qui abbiamo ben tre lezioni differenti. La lezione standard è ἐποίησεν ἀρχὴν, cioè fu l’inizio. Poi troviamo in א: ἐποίησεν τὴν ἀρχὴν, nel papiro p66 ἀρχὴν ἐποίησεν e poi in altri documenti τὴν ἀρχὴν ἐποίησεν. Non commenterò queste lezioni, anche perché ho deciso di seguire quella standard. Vi volevo solo fare notare come sia davvero difficile determinare con esattezza il contenuto di un libro scritto 2000 anni fa. Sottolineo l'utilizzo del termine segni e non miracoli, questo perché, come abbiamo visto sopra, non si tratta di un miracolo, ma di un segno figurato, atto a trasmettere un messaggio. Infine, ecco il compimento del terzo giorno: manifestò la sua gloria.

Concludiamo dicendo che questo passo è il capovolgimento del concetto di Dio. Non siamo noi che dobbiamo meritare l’Amore di Dio, ma è Lui stesso che elargisce il suo amore a tutti gratuitamente, a prescindere se si è oppure no “purificati”. Non importa restituire amore a Dio, che lo distribuisce a senso unico, l'importante è consapevolizzarsene per trasmetterlo (la madre e i servi). Ecco perché viene collocato, oltre che al terzo giorno, anche nel sesto giorno: la creazione dell’uomo era in funzione della Legge, ma per Giovanni la legge è superata, il messaggio di Gesù è talmente nuovo, che quello che c’era prima non conta più. Questa teologia troverà il suo culmine in Gv 13,34 (che ho spiegato in un altro articolo, sempre su questo blog).
In questi termini, questo segno, è davvero il più grande fatto dal Maestro!

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