Μακάριοι (Macarioi) cioè Beati: LE BEATITUDINI (parte terza)

Eccoci ad affrontare la terza e ultima parte riguardante questo stupendo messaggio di profonda umanità enunciato dal Maestro sul monte. Messaggio che, come abbiamo visto nei primi due articoli, non prevede il dover credere in qualcosa o in qualcuno per arrivare alla beatitudine, ma richiede di atteggiarsi, di porre in essere azioni rivolte a chi ci sta a fianco, chiunque esso sia (vedasi la prima beatitudine che regge tutte le altre). Se vogliamo questo è un cambio radicale. Nel messaggio che tutta l’umanità studia per la sua portata umanistica (questo delle beatitudini è uno dei passi più studiati da tutte le religioni e umanisti del mondo da circa duemila anni) non viene mai menzionato la necessità di dover credere.
Detto questo riprendiamo l’analisi delle ultime quattro beatitudine, lasciando in fondo alcune precisazioni sfuggite nel primo e secondo articolo.

Dopo aver esaminato le situazioni simboliche (nel senso di rappresentative) nel mondo a opera di coloro che hanno accolto la prima beatitudine, adesso Gesù passa ad esaminare quali sono gli effetti nell’individuo che accoglie queste beatitudini. La Parola di Gesù è la Parola che modifica, che infonde vita. Una volta che questa Parola viene accolta nella persona, essa sprigiona tutta l'energia che contiene e in maniera crescente trasforma tutto l’individuo.

Beati coloro che attuano misericordia perché otterranno misericordia”: il termine misericordioso non indica una qualità dell’individuo o un carattere della persona, ma un’attività che rende riconoscibile la persona come tale. L’effetto della prima beatitudine di orientare la vita secondo il bene degli altri fa sì che la persona sia sempre disponibile. Non una volta ogni tanto (siamo tutti capaci di fare il buon samaritano una volta ogni tanto). Il termine “misericordioso” è un’attività che rende riconoscibile la persona come tale. E’ un’azione abitudinaria. I misericordiosi sono quelle persone che, noi siamo certi, quando saremo nel bisogno ci diranno sempre di sì. Quando abbiamo una necessità, un’emergenza, quella persona che ci viene in mente, quella è misericordiosa. Quindi potremmo tradurre: “quelle persone che sono sempre disponibili, sempre pronte ad aiutare”. Il Maestro dice: “beate perché sempre saranno aiutate. Quando si troveranno nel bisogno, troveranno una risposta da parte di Dio immensamente superiore alla necessità”. Dio non si fa vincere in generosità, dona sempre molto di più.
C’è un’espressione nel Vangelo di Marco molto importante: “La misura con cui misurate, sarete misurati e vi sarà dato in aggiunta” che significa che quello che noi diamo ci viene ridato, e Gesù assicura ci sarà dato anche in aggiunta. Se noi, poi, abituati a donare ciò che abbiamo (ma adesso abbiamo qualcosa in più) doniamo anche quel qualcosa, ecco che ci verrà dato ancora di più. La si potrebbe leggere così, io dono 100, la mia misura, Dio mi restituisce 100 + 30, quindi 130. A questo punto dono 130, ma ecco che Dio mi restituisce 130 + 50 e quindi ho 180. Così via. Ma di cosa si parla qui? Qui si parla dell’amore e più si dona amore, più si ha grazia e si cresce dentro per essere pronti a donare di nuovo in maggiore quantità. Ecco perché Gesù ha anche detto quell’espressione che, così com’è tradotta ed interpretata, dà modo a un’interpellanza sindacale: “a chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. Sembra di un’ingiustizia pazzesca. Analizziamo il passo. Il verbo avere è un verbo risultativo, perché quando io dico io ho, è sempre il risultato di un’azione. Ho questa giacca che mi è stata regalata, ho questo libro perché mi è stato comprato. Il contesto in cui si colloca la frase risulta essere subito dopo la narrazione della parabola dei 4 terreni, dove vi è un seme che è capace di produrre e fruttificare. Allora il significato è questo: a chi produce sarà data capacità di produrre ancora di più. Chi ha colto il messaggio di Gesù, lo traduce in atteggiamenti pratici, più si dona agli altri e più gli viene data capacità di dare. Chi invece non si dà agli altri, chi non produce rende sterile la propria capacità di amare, e quando arriva il momento che ne ha bisogno, non ne è capace. Se io mi alleno quotidianamente a superare gli inevitabili screzi che la vita comune, la vita famigliare, la vita sociale, comporta, quando arriverà il momento del torto, dell’offesa, sarò capace a perdonare perché mi sono allenato. Ma se io mi lego al dito tutti gli screzi, tutte le offese, quando arrivo al momento grosso del torto, ne sarò incapace. A chi ha sarà dato, a chi produce amore sarà data ancora più grande capacità di amare, e a chi non ha sarà tolta anche quella capacità.
Allora Gesù vuole dire: “quelle persone che sono sempre disponibili ad aiutare, a rivolgersi verso gli altri, sono beate perché quando si troveranno nel bisogno saranno immediatamente aiutate e riceveranno molto più”.

Beati i trasparenti perché vedranno Dio”: incominciamo con il dire che per cuore, nella cultura ebraica non s’indica gli affetti, ma la coscienza. Mi rendo conto che la tradizione occidentale ha sempre associato questa parola ai sentimenti, agli affetti. Noi occidentali parliamo di cuore come quel centro della vita affettiva e spirituale. Ma i vangeli non furono scritti da europei, ne tanto meno ai nostri giorni. Per cui queste parole devono essere rilette alla luce della tradizione di chi le utilizzò. Poiché l’agiografo è più o meno del I-II secolo dopo Cristo ed è un molto probabilmente uno scriba, bisogna collocare il termine cuore nella sua epoca e cultura. Per comprendere a pieno il significato di questo temine bisogna quindi andare a prendere i passi del Vecchio Testamento dove ci si riferisce a esso. Si legge, per esempio, nel I libro di Samuele, a riguardo di un tizio, Nabal: “il suo cuore gli morì in petto ed egli divenne come una pietra. Dieci giorni dopo il Signore colpì Nabal e lui morì”. Allora il cuore gli morì, per dieci giorni diventa come una pietra, e dopo  altri dieci giorni il Signore lo fa morire di nuovo, ma allora cosa significa il cuore? Il cuore significa la testa, il pensiero, cioè a questa persona gli è venuto un attacco celebrale e dopo dieci giorni è morto. Allora quando nel vangelo o nell’Antico Testamento leggiamo che una persona è dura di cuore, non significa una persona crudele, ma una persona testarda, perché il cuore indica la testa.
Specificato il significato di cuore, possiamo pure a specificare il senso di “puro di cuore”. Questo è il soggetto limpido, trasparente. L’evangelista qui cita il salmo 24, dove la purezza di cuore era tra le condizioni per l’accesso al Tempio. Quand’è che una persona è limpida, trasparente? Quando ha rinunciato all’ambizione di essere al di sopra degli altri, di essere diversa. Quando si è accolta la prima beatitudine, si tolgono tutte le maschere, le finzioni. Essere limpidi, trasparenti significa avere sulla lingua quello che si ha nel pensiero, non ci sono finzioni, menzogne. Ebbene queste persone sono “beate perché vedranno Dio”. Attenzione: non è una promessa per l’aldilà, tutti nell’aldilà vedranno Dio, anche chi non è stato puro di cuore (e non c’è religione universale che neghi questo). L’esperienza del conoscere, qui esposta dal Maestro, è un’esperienza nel “di qua”. Non si tratta di assicurare visioni o apparizioni o altre stregonerie del genere. Nulla di tutto questo! Il verbo usato dall’evangelista per “vedere” (ὁράω) non indica la vista fisica (che in greco s’indica con il verbo βλέπω) ma una profonda esperienza interiore. Ed è importante questo verbo perché lo ritroveremo al momento della Risurrezione.
Le beatitudini sono strettamente collegate alla Risurrezione. Quando Gesù risuscita dice alle donne “andate a dire ai miei discepoli che se vogliono vedermi vadano in Galilea e là mi vedranno”. Gesù non si presenta, secondo Matteo, ai discepoli in Gerusalemme, ma li manda in Galilea. Essi vanno in Galilea e, scrive l’evangelista, vanno sul monte che Gesù aveva loro indicato. Ma Gesù non aveva indicato loro nessun monte… qual è allora questo monte? Quello delle beatitudini: cioè il vivere a pieno questo messaggio. E là lo videro.
Cosa vuol dire l’evangelista? L’esperienza del Cristo risuscitato non è stato un privilegio concesso duemila anni fa a un piccolo gruppo di persone, ma una possibilità per tutte le genti di tutti i tempi. Allora il verbo “vedere” indica una profonda esperienza e percezione della presenza di Dio nella propria esistenza. Se è vero che noi siamo immersi nella presenza di Dio, perché non lo percepiamo? Per quale motivo? Vedete, come informatico, quando mi capita di andare in bicicletta con i miei amici per la vasta campagna del Po’, mi diverto a ricordagli che la rete ci circonda, che ovunque c’è internet, basta prendere un’antenna e/o un cellulare, e anche nel posto più remoto si può essere on-line e arrivare dall’altra parte del modo. La rete è tutt’intorno a noi, ma per utilizzarla devo avere gli strumento idonei. Stessa cosa con le “onde” vitali dell’amore di Dio! Ma perché non se ne fa l’esperienza? Perché non abbiamo creduto al suo messaggio. Vedete, ci sono espressioni di Cristo che non vengono credute. Sono talmente esagerate che sono rimaste lettera morta. Sì, si leggono ma non ci crediamo. E non ci crediamo perché non le pratichiamo. A es. : Gesù ci dice di perdonare e non solo, ma anche di parlare e fare del bene a chi ci ha fatto del male. Roba impossibile, non lo fa nessuno. Se arriviamo a perdonare, già abbiamo esaurito tutte le nostre energie e non ce ne restano altre. Ma il perdono è soltanto il primo passo che Gesù ci chiede di fare. Dopo il perdono bisogna far del bene a chi ci ha fatto del male. Ma siamo matti? E addirittura bisogna parlare bene di chi ci ha fatto del male.
Ebbene, facciamo tante prove nella vita, perché non facciamo anche questa? Proviamoci. La nostra vita cambia radicalmente. Sapete cosa succede? Quando noi siamo capaci di far del bene a chi ci ha fatto del male, innalziamo il livello della nostra capacità di amore, questo entra in sintonia e s’intreccia con l’onda di amore di Dio che così fa con noi e da quel momento, la nostra vita e quella di Dio sono strettamente connesse e non si separeranno più. Si percepisce la presenza di Dio in certi particolari momenti e situazioni, un Dio che non si prende soltanto cura delle situazioni importanti dell’esistenza, ma anche di quegli aspetti che sembrano minimi, secondari della propria vita.

Beati i pacificatori perché saranno chiamati figli di Dio”: prima di tutto i termini. Gesù non proclama beati i pacifici, ma i pacificatori, i costruttori di pace. Qual'è la differenza?

• Il pacifico è una qualità dell’individuo, è colui che tiene tanto alla sua pace che evita accuratamente ogni situazione di conflitto.
• Il pacificatore è un individuo che per la pace degli altri, crea situazioni conflittuali, i costruttori di pace sono dei gran rompiscatole, perché per la pace degli altri sono pronti a perdere la propria.

Ma vediamo chi sono questi personaggi. Costruttori di pace: anche qui l’evangelista non indica una qualità dell’individuo, ma un’attività che rende pienamente riconoscibili. La parola pace la conosciamo dall’ebraico “shalom”, è molto più ricca del nostro termine pace: pace significa tutto quello che concorre alla piena felicità degli uomini. Quindi vedete ancora una volta che il progetto di Dio è che gli uomini siano felici. Sottolineo questo perché purtroppo conosco persone che associano più facilmente Dio all’infelicità che alla felicità; non solo ci sono tante persone che non vivono serenamente neanche quei periodi di tranquillità e di felicità che la vita offre, hanno paura che se ne accorga il Padre eterno!!. Tanto è vero che nel linguaggio popolare quando nella vita capita qualcosa d’inevitabile, si dice: lo sentivo che doveva succedere qualcosa, andava tutto troppo bene! Questa è l’immagine pagana della divinità, degli dei che quando si accorgevano che qualcuno raggiungeva una soglia di felicità che a loro sembrava intollerabile, ecco che gli davano una mazzata.
Molte persone, la parola “felicità”, hanno paura di pronunciarla perché sembra che non sia possibile associata a Dio, tanto è vero che siamo tutti eredi della famosa “valle di lacrime”, la piscina spirituale dove le pie persone sguazzano piamente e devotamente. Non è questo il messaggio di Gesù: egli c’invita alla pienezza della felicità qui, è possibile essere felici qui. Per la deformazione spiritualizzante che c’è stata in passato, molte persone credono che essere felici, essere gratificati, non sia corrispondente alla volontà divina. Sembra che se uno non si sacrifica, se uno non soffre, questo non sia accetto agli occhi del Signore. La persona felice sembra che non sia in sintonia con Dio. Basta guardare l’iconografia del passato, guardate i santi, che allegria, che facce particolari che hanno! Avete mai visto un santo felice? Un santo sorridente è raro, sono sempre mesti. 
E’ volontà di Dio che su questa terra si realizzi la felicità e Gesù ci chiede di collaborare alla creazione di Dio. Vedete, nella teologia giudaica si credeva e si insegnava che Dio aveva lavorato per 6 giorni e il settimo si era riposato, aveva creato il mondo, l’universo, poi gli uomini l’avevano guastato, ma Dio aveva lavorato. Gesù non è d’accordo: quando gli rimproverano di non osservare il sabato, nel vangelo di Giovanni Gesù risponde: “il Padre mio lavora e anch’io lavoro”, la creazione non è terminata. La narrazione che troviamo nel libro del Genesi di quell’armonia tra l’uomo e la donna, tra l’uomo e il creato, non è un rimpianto di un paradiso perduto, ma la profezia di un paradiso da realizzare.
Quindi non c’è da rimpiangere un paradiso perduto, ma da rimboccarci le maniche per realizzare questo paradiso. 
Ecco perché Paolo nella lettera ai Romani ha un grido: “l’umanità, la creazione geme nell’attesa che diventiate figli di Dio”. Questa è la volontà di Dio, che noi diventiamo collaboratori della sua creazione; questo significa essere costruttori di pace. Ecco perché in questa beatitudine c’è l’equivalente: perché questi saranno chiamati figli di Dio.
Figli di Dio nel mondo ebraico ha 2 significati (oltre al canonico essere generato):

1. di assomigliante (figlio di Dio significa che assomiglia a Dio)
2. di protezione da parte di Dio.

Ci sarebbero una serie di esempi a supporto di questo, sia nel Vecchio che nel Nuovo testamento), un esempio su tutti in Gv. 1:42b in cui il Maestro chiama Simone figlio di Giovanni, in questo caso il Battista. Qui Gesù si rivolge a Simone identificandolo simile al Battista per idee, modo di agire e relazionarsi. Ecco la figliolanza per modalità e non per discendenza.

Ebbene Gesù assicura: quelli che costruiscono la pace, cioè quelli che lavorano per la felicità, per la dignità e la libertà degli uomini, beati perché prima di tutto assomigliano a Dio. Se assomigliano a Dio significa che fanno lo stesso lavoro di Dio. E poi beati perché avranno Dio dalla parte loro. Dio sta dalla parte non di chi toglie la felicità, ma di chi la costruisce, non di chi toglie la dignità, ma di chi restituisce la dignità agli uomini, cioè Gesù c’invita a collaborare alla creazione.
Vedete, c’è un’espressione nel NT che però con il nostro limite traduciamo tutto con la nostra mentalità occidentale e non secondo i criteri orientali. Quando in Paolo, o anche in altri passi, si parla che noi siamo stati scelti per essere figli adottivi di Dio, noi abbiamo la nostra immagine occidentale in cui l’adozione è quel gesto d’amore con il quale si prende un bambino nel seno di una famiglia; ma il significato teologico di essere figli di Dio, figli adottivi di Dio è molto più ricco. A quell’epoca si usava così: quando un re o un imperatore vedeva la sua vita ormai alla fine, non lasciava il suo regno il suo impero ad un figlio suo
naturale, ma sceglieva tra i propri generali, tra i propri ufficiali la persona che gli sembrava più adatta, la più capace di continuare come lui il suo impero, e l’adottava come figlio.
È questa l’adozione a figli, cioè un Dio talmente innamorato degli uomini, un Dio che ha talmente stima di noi che ci chiede di essere suoi figli adottivi, cioè di collaborare con Lui e come Lui alla creazione del mondo, a costruire la pace.


Le beatitudini finiscono con una “doccia fredda”. Abbiamo visto che la prima beatitudine non è una promessa per il futuro ma lo è per l’immediato (se questa sera prendiamo la decisione di orientare la vita per il bene degli altri, immediatamente permettiamo a Dio di prendersi cura di noi).
Poi ci sono le promesse per l’umanità, gli effetti nella comunità che accoglie le beatitudini, ed ecco la doccia fredda che non ci saremmo aspettati:

Beati i perseguitati a causa della giustizia perché di essi è il Regno dei cieli”: è la beatitudine più complessa da commentare. E’ la beatitudine della consapevolezza (così la chiamo io), cioè quella della super doccia fredda! Mai capitato di fare un progetto lavorativo, questo è fatto a step, ci sono i SAL, le riunioni d’ingaggio, eccetera. Poi, a circa due o tre mesi dal via ecco la doccia fredda! La consapevolezza che qualcosa non è stato fatto e che quindi si deve rivedere il progetto. Mai capitata questa sensazione? A me si! Questa beatitudine rappresenta proprio questa sensazione, addirittura viene rafforzata volutamente dai versetti 5,11-12, che sicuramente uno non digerisce molto facilmente. Però se ci pensiamo con calma tutto trova un senso logico: la scelta di un programma come quello fin qui descritto non può non portare a una rivoluzione, una rivoluzione in primo luogo interiore, il totale orientamento della propria coscienza verso gli altri, e in seconda battuta esteriore, una comunità basata su questo messaggio inevitabilmente cozza con gli interessi di qualcuno. 
Per capire quest’ultimo versetto (quindi anche i due versetti successivi) bisogna precisare che per giustizia s’intende colui che è fedele, colui che decide di fare suo questo progetto costi quel che costi. Il Maestro, in quest’ultima beatitudine, ci dice: “se fate questa scelta, una scelta fedele fino in fondo, una scelta drastica di rivolgere i vostri sforzi agli altri, non verrete osannati, ma verrete perseguitati”. Questo è il monito del Maestro proclamato nelle ultime righe del brano in analisi, ma c’è di più perché Gesù specifica anche chi saranno coloro che maggiormente si opporranno a questa novità. Il termine greco adoperato dall’evangelista, come soggetto, indica “perseguitati in nome di Dio”. Gesù, nel Vangelo di Giovanni dice: “Arriverà il momento in cui chi vi ammazza crederà di rendere culto a Dio”. Questo perché la comunità che accoglie le beatitudini, è la comunità nuova e sarà causa di turbamento, di scompiglio dentro le strutture religiose, sociali, politiche ed economiche che riverseranno la loro ostilità verso il diverso, il nuovo. Ogni cambiamento, ogni novità, vengono viste come un attentato alla sicurezza dei propri interessi. Una comunità che vive secondo lo spirito delle Beatitudini, è una comunità dove nessuno si mette al primo posto, dove nessuno prevarica l’altro, ma anzi è sempre disposto ad aiutarlo, è sempre al servizio. Dove la ricchezza è distribuita e la giustizia è il substrato. Dove l’amore dell’uno verso l’altro ha la meglio sui propri egoismi. Capite che una comunità così fa paura, fa paura perché non necessità più di quei meccanismi di controllo, non necessità più di quelle istituzione che devono dire come e cos’è necessario fare per essere dentro, oppure fuori, buoni o cattivi. Fu il motivo del perché, per esempio, nei primi 200 anni di vita del cristianesimo i primi gruppi cristiani vennero perseguitati anche  fisicamente. Non ritenevano più necessario far parte di un’entità, di uno stato, ma messo tutto in condivisione, essi risultavano slegati dalle autorità. Per potare un esempio: intorno al 112 Gaio Plinio II, governatore romano della Bitinia (una provincia dell’Asia Minore), chiede istruzioni all’imperatore Adriano in merito ai “cristiani” accusati di vari reati, i quali, in base ai suoi accertamenti, rifiutano di tributare all’imperatore l’onore del culto, altro non facendo, apparentemente, che condividendo tutto e innalzare inni “a Cristo come a un Dio”. Ecco un cenno storico degli effetti che porta accogliere le beatitudini: essere comunità slegate e in comunione. Ma, purtroppo, sappiamo anche come andò a finire.
Quindi Gesù dice: “per la fedeltà a queste beatitudini, sarete perseguitati, ma gli effetti negativi della persecuzione vengono annullati perché di essi è quel regno di Dio che abbiamo visto nel secondo articolo. Di essi è quella comunità dove si sperimenta la condivisione, l’aiuto, il supporto. Quindi l’evangelista ci vuole dire che chiunque abbracci questo programma sicuramente andrà incontro alla persecuzione, ma questa non sarà causa di morte perché Dio mette a disposizione la sua comunità, fatta di altre persone che hanno abbracciato questo stesso messaggio, a sostegno. 
Ci sono sicuramente un paio di punti che hanno fatto storcere il naso a qualcuno e che adesso cerco di delucidare. Per spiegarli vorrei raccontare la storia di una santa che credo conosciate tutti, questa donna straordinaria che è stata Teresa di Avila. Era entrata tra le monache di clausura, ma lei era la donna delle beatitudini, cioè in sintonia con Dio, sentiva insufficienti i mezzi, gli strumenti che la regola le dava e aveva bisogno, proprio perché era in sintonia con Dio, di agire in una forma nuova. Ebbene il vescovo scrive al santo Uffizio queste testuali parole: “ho qui nella mia diocesi una monaca che è femmina inquieta e vagabonda”. È un autoritratto bellissimo, la monaca femmina inquieta e vagabonda, la chiesa, dopo un po’ di tempo l’ha riconosciuta “dottore della chiesa”, invece del vescovo si è persa la memoria. Ma aveva ragione, povero cristo: o Teresa mia, sono secoli che le monache diventano sante con queste regole, che bisogno c’è di modificarle, di cambiarle? Ecco gli uomini delle beatitudini, i costruttori di pace, quelli che sono in sintonia con Dio, trovano i mezzi dei loro contemporanei, sempre insufficienti e avranno bisogno di crearne sempre nuovi perché la comunità voluta da Gesù è una comunità dinamica animata dallo Spirito. Ma ecco anche la persecuzione, che non è per forza fisica, ma anche psicologica, mediatica, eccetera. Persecuzione che in ogni caso non ha la meglio, come la storia di Santa Teresa insegna.

Questa è la buona notizia: Dio vuole, desidera che gli uomini siano pienamente felici. Chi non lo desidera è l’uomo stesso, il suo egoismo! Per questo il Maestro ha proclamato l’ultima beatitudine, consapevole che la scelta di condivisione porta inevitabilmente a rovinare i progetti a qualcun d’altro. Tant’è che quando Gesù finì questa proclamazione, le folle (in greco ὄχλους - qui apro una parentesi lunga: è bello che l’evangelista usi questo termine e non popolo. Per popolo, nel VT, s’intende il popolo di Dio, per cui se avesse usato questo lemma avrebbe legato il messaggio delle beatitudini solo a Israele. Usando il termine genti, l’ha voluto associare a tutti i popoli della terra) non furono prese da entusiasmo. Non si legge nel vangelo che osannarono di felicità il Maestro. Questo aveva appena espresso com’essere beati (cioè pieni di quella felicità che spetta solo agli dei), ma nessuno acclama. Anzi deve pure aggiungere quella famosa frase che qui riporto:

17Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. 

che in greco è

17Μὴ νομίσητε ὅτι ἦλθον καταλῦσαι τὸν νόμον ἢ τοὺς προφήτας· οὐκ ἦλθον καταλῦσαι ἀλλὰ πληρῶσαι.

Qua bisogna spiegare attentamente, perché solo così si potrà capire le beatitudini. Purtroppo la nostra traduzione fa pietà (scusatemi, ma è così e l’utilizzo di alcuni vocaboli non rendono bene l’idea). Per comprendere il passo bisogna capire correttamente il verbo greco καταλῦσαι che vuol dire demolire, non abolire. Quindi l’evangelista sta dicendo che Gesù non è venuto a demolire la legge, ma attenzione una legge non si demolisce. Qualsiasi giurista mi potrà dire che la legge si abroga, si abolisce (tirato, ma questo è quanto tradotto in italiano). In realtà qua si sta facendo riferimento alla demolizione fisica di qualcosa, quindi a che cosa bisogna riallacciare questo passo? Gesù, come abbiamo visto nelle Beatitudini, è venuto a proclamare la realtà del regno di Dio. E come abbiamo intuito non c’è stata acclamazione di ciò, questo perché il profeta Isaia aveva detto sul regno di Dio: "Già io vedo carovane di cammelli che portano ad Ovest tasse per Gerusalemme" [cfr. Is 60,6] (cioè Israele che domina tutte le nazioni), "e ci saranno principi e re a lavorare le nostre viti" [cfr. Is 60,10-11; 61,5]. Quindi, il regno di Dio è la dominazione d'Israele verso tutti.  Gesù dice: "Beati i poveri in spirito, perché di questi è il regno di Dio" [Mt 5,3]. I poveri? Ma dobbiamo dominare l'umanità! Gesù mette in crisi cosa? Quell'attesa del regno di Dio che la tradizione aveva ancorato alla legge e ai profeti. Qui bisogna aprire una parentesi per specificare che allora per Legge si intendeva tutto quanto presente nei primi cinque libri del vecchio testamento e per Profeti, la restante parte del VT. Quindi non va confusa con la legge Mosaica che Gesù ha abrogato (vedere mio post You have Matrix), ma va intesa nel senso del progetto che tutto il Vecchio Testamento portava con se. Quel’è questo progetto? Il regno di Dio, che veniva associato al regno d’Israele. Qui Gesù dice esattamente il contrario di quanto si aspettavano, quindi specifica: no, io non sono venuto a demolire quella costruzione del regno di Dio contenuta nella legge e nei profeti, io non sono venuto a demolirla, ma a portarla a compimento fino all'ultima virgola: ma non nella maniera che pensate voi." Il regno di Dio, contenuto e profetizzato nella legge e dai profeti - dice Gesù - io sono venuto a realizzarlo, ma non dominando: servendo gli altri. E' la grande novità! Questo è il cambio di cultura, la beatitudine, ma questo è anche ciò che porta all'incomprensione, all'ultima beatitudine.

Commenti