Μακάριοι (Macarioi) cioè Beati: LE BEATITUDINI (parte seconda)

Continuiamo con la seconda parte del nostro articolo sulle beatitudini. Come abbiamo visto nel precedente scritto, il numero di queste dipende da quale evangelista si legge. Inoltre, determinata la “versione” da analizzare, abbiamo visto la struttura logico linguistica che l’evangelista ha adottato per l’esposizione delle stesse. Abbiamo concluso con il parlare del significato dei numeri componenti questo bellissimo passo.
In questo articolo toccheremo un’esegesi passo a passo, ma senza entrare troppo nei tecnicismi del precedente brano. Poiché non ci sono note filologiche rilevanti, ho anche deciso di non riportare le piccole differenze presenti.
Fatta questa breve premessa, vediamo ora di intraprendere un discorso più ermeneutico, legato al significato di queste otto beatitudini.

Introduco subito un aspetto teologico di fondamentale importanza per comprendere a pieno questo messaggio: si legge in Giovanni 1,18 “Dio nessuno lo ha mai visto”. Un’affermazione forte, un giudizio che mette in crisi una tradizione millenaria. Infatti si potrebbe obiettare a Giovanni come faccia lui a spere questo, come possa usare un’espressione del genere, ad essere così categorico. Si potrebbe far notare a questo evangelista che vi è una lunga lista di personaggi del VT che possono vantare il contrario, che possono dire di essere entrati in diretto contatto con Lui: Abramo, Mosè, Elia, eccetera; questi chi sono? 
Ma Giovanni non è d’accordo: “Dio nessuno lo ha mai visto”: per l’evangelista tutte queste esperienze sono state tutte parziali, limitate. L’evangelista aggiunge: “il Figlio unigenito, […],è lui che lo ha rivelato”. Lo scrittore chiede un sforzo mentale non indifferente al lettore. Lo scrittore chiede di mettere da parte ogni idea riguardante la conoscenza di Dio, concentrando l’attenzione su Gesù, sulla sua vita, sul suo insegnamento. Questo per arrivare a mettere in sinottico quanto noi sappiamo di Dio e quanto Gesù ha mostrato. Se quanto estraggo dalle opere di Gesù, dal suo messaggio, coincide con l’immagine che ho di Dio, quella si mantiene, ma se si distanzia, o peggio se ne allontana e/o contraddice, quell’immagine che ho va eliminata. Il versetto Gv. 1,18 ha questa funzione teologica, di centrare la nostra attenzione sull’immagine che Gesù da di Dio.
Gli evangelisti sono d’accordo nel presentare Gesù come unica e piena rivelazione di Dio e ci fanno capire che “ Gesù non è come Dio” ma “Dio è come Gesù”. E’ importante questa definizione prima di iniziare ogni esame dei brani evangelici. Se noi diciamo che Gesù è uguale a Dio, significa che di Dio abbiamo un’immagine. Ebbene no: non Gesù è uguale a Dio, ma Dio è uguale a Gesù.
Questa è anche la risposta che Gesù darà a Filippo quando questi gli chiederà “mostraci il Padre e ci basta” . Gesù risponderà: “chi ha visto me, ha visto il Padre”. Quindi è soltanto dalla conoscenza di Gesù che si comprende e si sperimenta chi è Dio. Quello che emerge dai vangeli è un Dio talmente diverso dalla religione, che saranno proprio i capi religiosi i massimi avversari di questo Dio e non esiteranno a sbarazzarsene, ad eliminarlo, perché in contraddizione con l’immagine del Dio che loro hanno presentato. E Gesù, per essere fedele all’immagine del Padre, non ha esitato ad affrontare la morte.
Ma quale è allora l’immagine che Gesù ci presenta? Gesù ci presenta un Dio che non chiede che gli uomini siano al suo servizio (nella religione l’uomo è il servo del Signore e questo servizio si esprime nel portare doni al Signore) ma un Dio che è a servizio degli uomini. Dio non chiede agli uomini di innalzarsi per raggiungerlo ma è Lui che si abbassa per raggiungerli e mettersi al loro servizio.
In tutte le religioni si insegna che l’uomo deve purificarsi per poter accogliere il Signore. Questo fa sì che tante persone, per la loro situazione, per la loro condotta, per la loro condizione di vita religiosa, morale, sessuale si sentano in una situazione di peccato, di colpa che non permette loro di avvicinarsi al Signore. La religione dice a queste persone: voi siete impure, siete nel peccato. Ma come faccio ad uscire da questa situazione? E qui entra in gioco la purificazione, ci vogliono le contrizioni, i pentimenti e tutta quella serie di atteggiamenti che centrano l’uomo sulla propria piccolezza, incapacità, distanza dall’Amore di Dio.
Gesù cambia tutto questo: non è vero che l’uomo deve purificarsi per avvicinarsi a lui, per poterlo accogliere. E’ vero il contrario: è accogliere il Signore che rende puro l’uomo. Gesù presenta l’amore di Dio concesso non per i meriti degli uomini, ma per i loro bisogni. Nella religione l’amore di Dio bisogna meritarlo attraverso i propri sforzi, con Gesù questo amore non va meritato ma accolto. Dio non si concede come un premio ma come un regalo. 
Dio non esclude nessuno dall’azione del suo amore, esso continuamente perdona, egli non assorbe le energie dell’uomo ma le potenzia, non è distante dagli uomini, relegato in qualche tempio. È un Dio che chiede di essere accolto dall’individuo per fondersi con lui, per essere una cosa sola con lui. Questa è la buona notizia di Gesù!
Ecco qui la vera grande novità di Gesù, la sovversione del rapporto Uomo-Dio, rivoluzione che allora, come oggi, viene messa sotto chiave. Adesso vedremo, nel messaggio più alto fatto dal Maestro per l’Uomo, come si attua questa rivoluzione.

Vediamo allora questo testo che è un capolavoro, non solo teologico, spirituale, ma anche letterario dell’evangelista. Leggiamo il cap. V di Matteo, facendo attenzione ad ogni minimo particolare, anche a quelli che di per se non ci sembrano rilevanti per la comprensione del testo, in realtà sono di grande importanza teologica e spirituale.

Vedendo le folle”.: la buona notizia è dilagata, le folle sono entusiaste. Scoprono un Dio diverso da quello che era stato loro imposto. E’ un Dio che ha a cuore la felicità degli uomini e non c’è niente da fare. Potranno dire di Gesù che è un bestemmiatore, un indemoniato.. la gente sa percepire e quando sente formulare la risposta al desiderio di pienezza di vita sa rispondere.

Gesù salì su il monte”: il monte, con l’articolo determinativo, significa un monte già conosciuto, non un monte qualunque. Che monte è? Bisogna riprendere il piano teologico esposto nel precedente articolo: Matteo scrive per dei giudei che hanno accolto e conosciuto in Gesù il Messia, ma a condizione che sia sulla linea di Mosè, il grande profeta e legislatore. Matteo allora compie una grande opera letteraria e ricalca la vita di Mosè presentando quella di Gesù. Allora “il monte”, simbolicamente, è il monte Sinai cioè il monte dove Dio ha concesso la sua Alleanza, ma c’è una grande differenza: Mosè era il servo del Signore ed ha imposto un’alleanza fra dei servi e il loro Signore. Gesù che non è il servo del Signore, ma è il Figlio di Dio, viene a proporre un’alleanza tra dei figli e il loro Padre. Mentre l’alleanza di Mosè è basata sull’obbedienza alle leggi di Dio, l’alleanza di Gesù è basata sull’accoglienza e sulla somiglianza all’amore del Padre. Cambia così il concetto di credente. Chi è il credente secondo l’antica alleanza? E’ colui che obbedisce a Dio osservando le sue leggi. Ma questo è già un fattore di ingiustizia perché molte persone non possono o non vogliono osservare le sue leggi e dal momento che non osservano le leggi, sono escluse. Con Gesù chi è il credente? E’ colui che assomiglia al Padre , praticando un amore simile al suo. E l’amore tutti quanti lo possono accogliere.

si pose a sedere”: il Maestro, per proclamare le beatitudini, si siede. Che Gesù fosse in piedi, seduto o in ginocchio, per noi non cambia il contenuto del testo… ma non secondo l’evangelista. Il monte nell’antichità era il luogo della dimora degli dei, della condizione divina. Conosciamo tutti nella mitologia classica l’Olimpo, il luogo dove gli dei si manifestavano. Ebbene, Gesù sul luogo della condizione divina, si siede, si installa. L’evangelista ci ricorda il Gesù che è seduto alla destra di Dio, cioè che ha la piena autorità e condizione divina.

e si avvicinarono a lui i suoi discepoli”: mentre sul monte Sinai le persone non potevano avvicinarsi (pena la morte), al nuovo monte dell’alleanza le persone devono avvicinarsi per avere la loro vita. 

Si mise a parlare e insegnava loro dicendo” : qui l’evangelista, in maniera ridondante, utilizza sia il verbo parlare che il verbo dire. Poteva semplicemente scrivere “e insegnava dicendo”. Perché lo fa? E’ chiaro che , se vuole insegnare, deve aprire la bocca, ma vuole ricordare la risposta che Gesù dà a satana nel deserto: “non si vive di solo pane ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. L’evangelista continua ad identificare Gesù con Dio. Ed è qui che iniziano le beatitudini. 

Beati i poveri per lo spirito perché di questi è il regno dei cieli”: vediamo subito di esaminare questa beatitudine che non è collocata al primo posto a caso. Questa è la condizione che regge l’esistenza delle altre. Ha il verbo al presente: “di questi è il regno”, tutte le altre, ad eccezione dell’ultima (cfr. articolo precedente) hanno il verbo al futuro, esse sono infatti l’effetto dell’accoglienza di questa beatitudine.
La prima beatitudine è quella che è stata più fraintesa ed è quella che ha fatto credere che Gesù avesse proclamato beati i poveri. No, mai Gesù nei vangeli proclama beati i poveri; i poveri sono disgraziati ed è compito della comunità cristiana togliere dalla loro condizione di povertà. Questo il
disegno di Dio sull’umanità, un disegno che era già espresso nell’antica alleanza: “nel mio popolo nessuno sia bisognoso”. 
A quell’epoca non si credeva nell’esistenza di un dio unico, ma ogni nazione aveva la sua divinità; si trattava di vedere qual’era la più importante, la più gloriosa. Ebbene, se tra di voi non ci sarà alcun povero, quella sarà la prova della presenza di Dio, la prova che questo Dio è grande. Questa sarà anche la prova della presenza del Cristo secondo gli atti degli apostoli: “testimoniavano con gran forza la risurrezione di Gesù”, come? Con grandi cerimonie? Con grandi preghiere? No, “testimoniavano la risurrezione di Cristo perché nessuno tra di loro era bisognoso”. La prova della presenza del Signore è dove non ci sono bisognosi. Quindi mai Gesù ha proclamato beati i poveri, ma proclama “beati i poveri per lo spirito”. 
Per poter capire cosa voglia dire qui l’agiografo dobbiamo comprendere sia come tradurre la particella greca τῷ, adoperata da Matteo, sia il significato di Spirito. La prima si presta a tre interpretazioni, qui eviterò di entrare in tecnicismi linguistici, anche perché il primo articolo è risultato esserlo già a sufficienza. Il secondo, anche lui, ha tre differenti interpretazioni in Matteo. Cominciamo da quest’ultimo. Per Spirito Matteo intende:

  • un’energia divina che potenzia, santifica ed ispira l’uomo. Questa accezione è normalmente utilizzata dall’evangelista sotto il termine “Spirito Santo”;
  • una forza negativa che aliena la persona. Questa accezione è normalmente utilizzata dall’evangelista sotto il termine “spirito immondo”;
  • un forza interna all’uomo in grado di fargli produrre scelte ed azioni. Questa è l’accezione che secondo noi deve essere utilizzata per l’interpretazione di questo passo. 
  • Il primo significato che possiamo darle è quello di
  • “di”, quindi potremmo leggere “beati i poveri di spirito”, cioè una persona deficiente, che gli manca qualche cosa, definizione che scartiamo subito, non è infatti possibile che Gesù proclami come massima aspirazione degli uomini, massima felicità, quello che è un handicap. Non è certo questo un traguardo.
  • La seconda interpretazione può essere “beati i poveri nello spirito” ed è l’interpretazione che ha avuto più fortuna e successo. Chi sono i poveri nello spirito? Sono quelle persone che pur avendo dei beni ne sono “spiritualmente distaccati”. La povertà di spirito si era trasformata in “spirito di povertà. Uno ha dei beni, ma ne è distaccato, un distacco che non prevede ne di sbarazzarsene, ne di donarli. Si tratta di averli, ma senza esserne legati. Una interpretazione che cozza con quanto Gesù chiede al ricco. Infatti in quella situazione il Maestro non chiede, a questo giovane benestante. un distacco spirituale. Non gli dice “tieni pure i tuoi beni, l’importante è che tu ne sia distaccato spiritualmente”. No, il distacco che Gesù chiede è reale, immediato e concreto. 
  • Resta allora un’ultima ipotesi che è “beati i poveri per lo spirito”. Sono quelle persone non che la società ha reso povere ma che per lo spirito, per la forza, per l’amore che hanno, decidono di entrare nella condizione di povertà. Non per aggiungersi ai tanti, troppi poveri che la società produce, ma proprio per eliminare le cause della povertà.
  • Ed è questo quello che Gesù ci chiede.

Adesso tratteremo la particella greca. Per brevità (come vi sarete accorti l’articolo è un po’ lunghetto) e per semplicità (il precedente scritto era un po’ troppo tecnico) tratterò solo dei possibili significati che questa particella può assumere, senza entrare in tecnicismi filo-letterari: 
Quindi Gesù proclama immensamente beati, felici, quelli che volontariamente, liberamente e per amore decidono di entrare nella condizione di povertà. Che significa? Non certo andare ad aggiungerci ai tanti altri poveri. Gesù non ci chiede di spogliarci ma chiede di vestire gli altri. Gesù chiede di abbassare un po’ il nostro livello di vita per permettere a quelli che lo hanno troppo basso di innalzarlo un po’. Gesù chiede non l’elemosina ma la condivisione. Mentre l’elemosina presuppone un benefattore e un beneficato, per cui rimane sempre una differenza, la condivisione che Gesù propone, crea dei fratelli. Allora Gesù dice: “quelli che liberamente , volontariamente e per amore, si sentono responsabili della felicità e del benessere degli altri sono felici, immensamente felici, perché di essi è il regno dei cieli”. 
Qui si presenta un nuovo problema. Il regno è stato interpretato in passato come un regno “nei” cieli. Un regno che sta oltre l’immanenza umana, che sta nella trascendenza. Nulla di tutto questo. Sappiamo che Matteo scrive a una comunità di giudei ed è attento a non urtare la suscettibilità dei suoi interlocutori (cfr. articolo precedente). Sa infatti che, nel mondo giudaico, il nome di Dio non si pronuncia né tanto meno si scrive. Allora tutte le volte che l’evangelista ne ha la possibilità sostituisce il termine Dio con termini che lo raffigurano, uno di questi è “cielo”. “Regno dei cieli” quindi, nel Vangelo di Matteo, è il “regno di Dio”. Ma cosa significa questo? Israele, dopo l’esperienza della monarchia – che era stata un totale fallimento - aveva proiettato in Dio l’immagine ideale del re e, secondo la Bibbia, re ideale è colui che si prende cura del povero, dell’orfano, della vedova, cioè delle persone che non hanno nessuno che pensi a loro. Ora possiamo capire che la beatitudine non è una promessa per il futuro ma è una proposta per l’immediato. Lo abbiamo visto nell’uso del verbo “è”, non “sarà”. Gesù si rivolge a una comunità : il messaggio è per individui che formano una comunità. Il Maestro non è venuto a formare dei santi ma a dare un messaggio che cambi le strutture stesse della società. Le società si basano su tre azioni che portano rivalità e inimicizia: AVERE, SALIRE, COMANDARE; possedere sempre di più per salire al di sopra degli altri e poterli comandare. Ebbene il Regno che propone Gesù è una società dove al posto dell’accumulo dei beni c’è la gioia della CONDIVISIONE; dove alla bramosia di salire sopra gli altri c’è la gioia di SCENDERE (che significa non considerare nessuno inferiore a se stessi) e al desiderio di comandare c’è l’esperienza gioiosa del SERVIRE gli altri. Questo è il Regno di Dio. Un cambio radicale nei valori che reggono la società.
Gesù proclama beati, felici coloro che liberamente, volontariamente e per amore fanno la scelta di sentirsi responsabili della felicità e del benessere degli altri. Felici perché? Perché di questi Dio si prende cura. E’ un cambio meraviglioso! Se noi ci occupiamo degli altri, permettiamo a Dio di prendersi cura di noi. E’ un cambio radicale del rapporto con il Signore, lo si sente presente nella propria esistenza, non dobbiamo più preoccuparci del nostro rapporto con Lui, l’unica nostra preoccupazione è prenderci cura degli altri, ai nostri bisogni, alle nostre necessità ci pensa Dio stesso: ecco la beatitudine! E’ una proposta tutta a vantaggio degli uomini perché Gesù non si lascia vincere in generosità. Ogni volta che trasformiamo l’amore ricevuto da Dio in amore comunicato agli altri attiriamo da parte di Dio una risposta ancora più grande e questo è il fattore di crescita delle persone. La prima beatitudine è dunque la scelta di essere responsabili della felicità delle persone. Chi fa questo sperimenta un cambio straordinario nella sua esistenza, si rende conto che Dio si prende cura come un padre della sua persona, del suo benessere.

Se c’è questa scelta da parte di una comunità, ecco che Gesù presenta le possibili conseguenze positive nell’umanità, per fare ciò l’evangelista elenca alcuni casi emblematici di sofferenza all’interno delle altre beatitudine che adesso andremo ad analizzare. Prima di proseguire vorrei precisare che non le analizzerò tutte in questa fase, considerando il già lungo articolo fin qui redatto, ho preso la decisione di dividere l’esegesi delle otto beatitudini in due altri articoli, questo più un terzo che uscirà successivamente. Detto questo continuiamo con l’analisi del testo.

beati gli oppressi perché saranno liberati”: per comprendere le beatitudini, non dobbiamo mettere la beatitudine ai soggetti ma nella risposta. Dobbiamo cioè leggere questa beatitudine così: “gli oppressi beati perché? Perché saranno liberati”. La beatitudine non consiste nell’essere oppressi ma nel fatto di essere liberati dall’oppressione. Chi sono questi oppressi? L’evangelista si riferisce al cap.61 del profeta Isaia, dove l’autore dice che l’attività del Messia sarà di consolare gli afflitti di Sion. Afflitti sono persone oppresse da una situazione sociale, economica e religiosa tale da non poter far a meno di gridare il loro dolore. Sono le persone schiacciate dalla società, da un poter economico, civile e religioso che li opprime. L’evangelista fa un uso accurato dei termini. Non dice , infatti che gli afflitti saranno “confortati”; il conforto è un aiuto morale che lascia il tempo che trova ma usa il verbo “consolare” che significa l’eliminazione alla radice della causa della sofferenza. Perché questo? Perché se c’è una comunità che decide di prendersi cura della felicità degli altri, quelli che sono stati schiacciati, oppressi vedranno la fine della loro afflizione.

beati i diseredati perché erediteranno la terra”: se si prende la traduzione classica: beati i miti, questa beatitudine risulterebbe non avere il corrispettivo positivo all’azione della beatitudine, infatti cosa centra la terra con i miti? Questa traduzione ha fatto si che si sia cercato, nel corso dei secoli, di spiritualizzare la beatitudine per cui la mitezza è diventata obbedienza, specialmente verso l’autorità e la terra da ereditare è diventato il regno dei cieli. Ovviamente nulla di tutto questo. L’evangelista si rifà alla storia del suo popolo e cita il salmo 37. Il salmista cerca di calmare gli animi della popolazione esacerbata. Quando le tribù di Israele erano entrate nella terra promessa e avevano preso possesso della terra di Canaan, questa terra fu divisa secondo le tribù. Ogni tribù divise la regione secondo i clan famigliari in modo che ogni famiglia potesse avere un terreno. La terra è importante, significa la dignità della persona. Se io ho un terreno, lavoro, mangio e posso far star bene i miei famigliari, ma se non ho un terreno, nulla di tutto questo. Per cui avere terreno è avere dignità. Un proverbio arabo ancora oggi dice: “un uomo senza terra è un uomo senza dignità”. A questa spartizione ideale, nel giro di un paio di generazioni, era capitato qualcosa che ancora oggi avviene: i più furbi, intraprendenti, capaci, i più prepotenti si sono impossessati del terreno del vicino meno capace o intraprendente. Nel giro di poche generazioni poche famiglie si erano impossessate della terra e molte persone dovevano andare a lavorare come braccianti nella terra che era stata loro o dei loro genitori. Allora questi protestavano e il salmista cerca di calmarli. Dice: “non preoccupatevi, un giorno questo cambierà e voi avrete in eredità un terreno”. Gesù riprende questo aspetto e proclama beati i miti. Mite non indica una qualità del carattere della persona ma una condizione sociologica negativa. E’ la stessa differenza che c’è tra umili e umiliati. Qui non si tratta di umili ma di persone umiliate. Allora per capire traduciamo “diseredati”. Gesù indica quelli che hanno perso tutto. Non sta a noi giudicare perché hanno perso. Sono i diseredati di questa terra. Gesù a differenza del salmista non dice “erediteranno un terreno” ma “la terra”. L’articolo determinativo indica la totalità. Cosa vuol dire? Quelle persone che hanno perso tutto, gli “invisibili” della società, questi grazie alla comunità – che ha fatto la scelta della prima beatitudine - troveranno e riscopriranno una dignità di una qualità tale che non avevano mai conosciuto. Queste beatitudini vengono come riassunte nella terza. Gesù proclama (per maggiori dettagli mio articolo precedente).

beati gli affamati e i desiderosi di giustizia perché saranno soddisfatti”: quelli che ne fanno una
questione vitale, che soffrono nel vedere che ci sono persone diseredate, oppresse. Quelli che sono affamati, assetati di questa giustizia saranno saziati. All’interno della comunità cristiana che ha fatto la scelta delle beatitudini non esiste alcuna forma di ingiustizia, di sopraffazione Gesù mette delle norme ben precise: nessuno possa essere considerato al di sopra degli altri, nessuno pensi di comandare gli altri, ma siete tutti quanti fratelli gli uni al servizio degli altri. Quindi, quelli che hanno fame e sete di questa giustizia, grazie all’accoglienza delle beatitudini, saranno pienamente saziati.

Per il momento ci fermiamo qui, la prossima volta affrontiamo le altre quattro beatitudini che rappresentano gli effetti nell’individuo dell’accoglienza di queste prime quattro. Come vi dicevo questo messaggio è di centrale e massima importanza nel messaggio del Maestro. In queste settantadue parole vi è un concentrato di umiltà, servizio ed amore che condensano tutto il magistero di Gesù. L’accogliere queste parole porta l’uomo ad un livello di relazione superiore con Dio, ma soprattutto con il prossimo, vero obiettivo del Maestro.  

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