You have Matrix!

Gran parte di noi conosce il film Matrix, film il cui obiettivo era esporre un concetto semplice, quanto sconcertante: il controllo! 
Quando lessi per la prima volta la trama, mi sovvenne un filosofo empirista: George Berkeley. La sua filosofia la possiamo sintetizzare così: nulla esiste al di fuori della mente la quale, essendo creata da Dio, è da lui controllata (immaterialismo). Esattamente Matrix: una realtà immateriale, controllata dalle macchine e posta dentro la mente umana. 
Ero felice di vedere proposto sui grandi schermi un argomento teologico-filosofico come questo, il quale ha suscitato una lunga dialettica che ha visto coinvolte le menti più autorevoli del pensiero e delle scienze naturali degli ultimi due secoli e mezzo. Eppure mi suonava strano che si volesse solo evidenziare questo alla fine del XXI secolo, senza voler raggiungere qualche altro punto di approdo. 
Oggi tutti sappiamo quali fossero i vari temi che questo film ha voluto toccare, ma la sensazione è che non siano stati comunque assimilati o totalmente compresi. Se interroghiamo Wikipedia, cercando la voce Matrix, nel paragrafo “Tematiche” troviamo una serie di argomenti che questo film ha tentato di esporre al grande pubblico. Si legge del problema filosofico legato al concetto di realtà e verità (cfr la mia breve introduzione), si legge del problema della conoscenza dell’io e dell’auto determinazione dell’esistenza, basata sulle scelte individuali, quindi di tutto quanto è connesso a questo: religione, spiritualità, ecc… Si legge del problema evolutivo, della relazione uomo-natura e uomo-macchina. Direi, per concludere, un quadro più che discreto dei vari concetti che questo film ha porto nel XXII.  
Ma voleva dire solo questo? A mio avviso si voleva evidenziare anche un fenomeno che è più subdolo da identificare e, perciò, è diffuso da secoli, forse millenni: il controllo che noi effettuiamo su noi stessi!
Il problema indicato potrebbe sembrane incluso nella consapevolezza dell’Io e, in linea di principio, è corretto, ma il più delle volte si propende ad interpretare la conoscenza di se stessi, quindi anche l’autodeterminazione della propria esistenza, in ottica di causa-effetto immediato, anziché trascendere all’insieme che li contiene. Facciamo un esempio, pensiamo ad una buona tazza di Tè! Quando si prepara questa bevanda, normalmente, si prende una teiera, la si riempie con l’acqua, la si mette sul fuoco fino a quando il liquido in essa contenuto non comincia a bollire e poi si immergono le foglie di Tè (siano queste chiuse in una bustina, contenitore oppure sfuse). In questo processo, composto da una serie di cause ed effetto, difficilmente si va a pensare che da qualche altra parte del globo, il vapore acqueo da noi generato, diventerà pioggia, per esempio un monsone in Cina, ma è così! Anche questo piccolo gesto è parte del sistema. Se ci fermiamo solo ai gesti della preparazione sopra descritti, il risultato lo sappiamo, solo andando oltre ad essi possiamo essere in grado di comprendere il sistema di cui siamo parte. Il problema è che a volte a noi basta fermarci alla piena conoscenza dei gesti immediati, così come ci fermiamo alla piena conoscenza delle sole cause-effetto dentro di noi. Questo è conoscersi, ed è sufficiente per poter dire che sono consapevole di chi sono, ma non è pienezza dell’io. Spieghiamo il concetto.
Tutti noi siamo coscienti di quei meccanismi di controllo derivanti dalla gratificazione, dal potere. Se si chiede ad un amico o conoscente di elencare le possibili cause di infelicità, nella lista che propone si trovano sicuramente queste voci. Ciò denota come l’uomo sia diventato molto consapevole dei meccanismi che dentro di lui possono renderlo schiavo, ma è davvero libero?
Mi è capitato più di una volta, mentre parlavo con degli amici, di sentire dire: “quella persona mi ha deluso”, oppure: “non la immaginavo così”. Affermazioni che credo tutti abbiamo, almeno una volta, usato nei confronti di qualcuno o, se non proprio detto, l’abbiamo pensato. Bene questa è una delle forma di autocontrollo che ci imponiamo. Poi spieghiamo meglio, adesso mi prefiggo di portare alcuni esempi.
Un’altra esperienza l’ho vissuta nei vari pellegrinaggi, che nella mia breve appartenenza a movimenti cattolici, ho fatto. Di solito in questo tipo di manifestazioni la venerazione alla Madonna non manca mai. E’ stato davvero sconcertante accorgermi che c’erano persone che adoravano “Nostra Signora di Fatima”, ci si spostava e c’era il gruppo che osannava a “Nostra Signora di Compostela”, così a “Nostra Signora di Lourdes” o di Loreto, e via dicendo. Ogni gruppo elencava la grandezza dalla loro “Nostra Signora” in grado, solo lei, di guarire specifiche malattie. Tutto ciò non è meraviglioso, ecco la vera ricchezza, la pluralità di “Nostra Signora” che sa guarire in Francia la malattia A, in Spagna la malattia B, in Italia la malattia C. Stupendo, ma quante madri di Gesù ci sono? Ci siamo talmente convinti della necessità di determinati stereotipi, che siamo stati in grado di moltiplicarli.
Ma ciò che mi ha davvero lasciato basito è la carità. Questa la possiamo definire come l’interesse personale mascherato da altruismo.  Non ne siete convinti? Esistono due tipi di egoismo, il primo tipo è quando io concedo a me stesso il piacere di compiacermi. Questo è il classico egocentrismo. Il secondo è quando mi concedo il piacere di compiacere gli altri. Questo sarebbe un tipo di egoismo più raffinato. Il primo caso lo conosciamo tutti, ma il secondo è ciò di cui ci nutriamo. Non è così? Quante volte avete fatto qualcosa per il prossimo, che vi ha generosamente ringraziato, e vi ha pervaso quella sensazione di gradevole accelerazione del battito cardiaco e pace interiore? Bene questo è già la vostra ricompensa! Ricordate quando nel Vangelo si narra della ricompensa che ottengono nell’immediato chi fa le “super-offerte” al tempio? Ecco a voi la stessa cosa! “Non sappia la mano desta cosa fa la mano sinistra”! L’inconsapevolezza dei gesti è carità, ma quando il gesto altruistico viene fatto anche solo per provare un briciolo di piacere, o con un filo di consapevolezza, questa non è più carità, ma egoismo illuminato. E noi di questo ci nutriamo.
Ecco qua la gabbia che noi costruiamo a noi stessi. Quel meccanismo che solo trascendendo l’immanente possiamo osservare perché, se stiamo a contatto con causa-effetto, esso ne è il contenitore. Si chiama attaccamento, cioè quello stato emozionale provocato dalla persuasione che senza quella specifica persona o cosa non possiamo essere felici. Se leggete gli esempi sopra descritti, tutti sono riconducibili all’attaccamento: l’illusione verso una persona, immaginandola per coma la voglio io, o desidero, piuttosto che vederla per quello che è. L’illusione religiosa, creando immagini per le necessità di cui abbiamo bisogno. L’illusione carità, capaci di donare ma a patto di provare quella gradevole sensazione di piacere che questo comporta.
Finché non saremo in grado di stare nel mondo senza questi beni, non sapremo attraversare le cruna dell’ago. Perché queste sono le nostre ricchezze! Il bisogno incessante di avere davanti agli occhi il desiderio che la realtà vada come noi desideriamo che vada. Nessuno è escluso da questo! E siamo così assuefatti da ciò, che non la vogliamo perdere. Facciamo di tutto per ricreare questa situazione di prigionia. A noi uomini piace, tranne qualche illuminato, avere l’attaccamento. Eppure, senza scomodare i grandi Guru orientali, i nostri maestri, uno tra tutti il Maestro, ha cercato di consapevolizzarci in merito a questo, ma noi preferiamo comunque tornare al sistema classico, al metodo della prigione, evitando anche l’evidente.
Volete sapere in quali occasioni l’ha fatto? Una su tutte, forse la più devastante perché va a toccare uno dei nostri attaccamenti più stretti, quando ha dato l’unico comandamento presente nel vangelo: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri.” (Gv 13,34).
Attenti bene, perché questo comandamento, l’unico ripeto che viene dato dal Maestro pronunciando le parole “vi do un comandamento”, è elargito durante l’ultima cena, prima della passione e morte, e viene dato al passato “come io vi ho amato”, non al futuro “come io vi amerò”. Per cui il Maestro chiede di amarci come lui ci ha amato fino a quel momento (evito di spiegare come).
Ma soprattutto, qui sta la grande rivoluzione, utilizza la parola greca καινὴν. In greco ci sono due modi per dire nuovo: il primo modo è quello di un nuovo che significa “sopraggiunto nel tempo” (esempio io ho un album nuovo, cioè un album in più). L’altro modo è nuovo inteso come “una qualità che annulla tutto il resto” (cioè un qualcosa di così stupendo, sorprendente, che quello che c’era prima dev’essere cancellato). Ebbene, in Giovanni 13,34 si utilizza καινὴν, che vuol dire nuovo in questa seconda accezione. Per cui nell’unico comandamento che da, il Maestro dice che lascia un qualcosa di eccezionalmente superiore a tutto, che cancella tutto quello che c’era prima. Cosa c’era prima? I dieci comandamenti! E se provate a pensare il comandamento lasciato, li supera tutti: se io amo il mio prossimo come il Maestro ha amato me, cioè servendomi, il non uccidere, il non mancare di rispetto, eccetera, vengono superati. Ma cosa esclude il Maestro nell’unico comandamento che lascia? Esclude Dio stesso! Non menziona Dio! Ecco qui l’illusione che cade, non è osannare Dio, non è l’attaccamento a Lui che ci porta alla libertà, alla felicità, ma è solo lo spogliarsi da quest’illusione che porta a vivere la vita in pienezza ora, avendo come fine il prossimo. In un solo versetto Giovanni devasta tutto il vecchio testamento e tutte le credenze. 
Appositamente ho scelto queste poche righe di Giovanni, proprio perché sono l’abbattimento delle illusione dell’uomo. 
Vedo già molti di voi storcere il naso, andare a prendere i versetti, i vangeli stessi e cercare se quello che ho detto è vero. Di questo sono molto contento, vuol dire che ho suscitato qualcosa in voi, come aveva suscitato in me lo stesso passo quando, facendo ermeneutica, mi sono trovato di fronte a questa rivelazione.
Ma è stato capire che mi ero costruito delle gabbie, che mi ha fatto comprendere il nostro stesso stato di autori del nostro Metrix.
Non ho la presunzione di convincere, ne tanto meno di esaurire questo particolare discorso in queste poche righe. Quest’articolo l’ho scritto con il solo obiettivo di suscitare il dubbio, perché, come diceva anche Socrate, “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”.

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