L’uomo oggi fatica a credere, perché?

Vorrei introdurre questo articolo con il precisare che non ho la presunzione di avere una risposta al quesito posto nel titolo. E’ mia intenzione evitare, pertanto, di far risultare questo scritto uno dei tanti documenti apologetici del perché non credere; non c’è bisogno di @Slackwarelife per questo, ci sono stati altri pensatori, ben più preparati di me, che hanno detto la loro in maniera più autorevole.
Ciò che mi prefiggo è di condividere un cammino, il mio, che può essere letto come l’esperienza fatta da tanti miei coetanei, che oggi vedono nella religione l’”oppio dei popoli”, criticandone fortemente il messaggio!
Come capita spesso quando si è piccoli, sono stato fin dalle elementari introdotto alla religione cattolica in maniera più o meno consapevole. Anch’io ho fatto il ministrante e ho militato tra vari gruppi quali: focolari, azione cattolica, ecc.. Con il passare degli anni, però, tutto questo mio impegno invece di arricchirmi, mi rendeva insoddisfatto. La vita in parrocchia e in diocesi non mi restituivano quello che volevo: la felicità. Provavo solo un senso di insoddisfazione, che sempre più cresceva dentro di me; mentre gli incontri nazionali o internazionali, dei vari movimenti, mi lasciavano sbigottito ed incerto.
Più passava il tempo, più mi rendevo conto che stavo stretto in questo mondo fatto di parole altisonanti e di un galateo a senso unico. Così decisi di intraprendere una strada diversa, di abbandonare tutto prendendomi un periodo sabbatico (coincidente con un forte cambiamento della mia vita) per capire cosa io non riuscivo a cogliere nei vari messaggi. 
Questo lasso di tempo passato fuori dagli ambienti ecclesiali e dalla dialettica propria di queste stanze, mi ha permesso di accostarmi a letture sempre più ampie ed abbraccianti punti di vista anche opposti a quelli che avevo. Questa esperienza di apprendimento mi ha portato a riflettere fortemente sul modo d’essere dei movimenti, della Chiesa in generale, che avevo fino a quel momento conosciuto. Mi resi conto che l’insoddisfazione non era dovuta ad una mia incapacità di cogliere il messaggio, ma stava nel modo in cui il messaggio veniva proposto. Non contava credere realmente, ma far credere di credere. Cerco di spiegare meglio il concetto. 
Mi è capitato spesso di ritrovarmi in riunioni di AC in cui si discuteva di alcuni progetti e come poterli portare a termine. Definiti gli obiettivi e i metodi da utilizzare per raggiungerli, si passava alla realizzazione. Qui, come credo succede nella gran parte di parrocchie e diocesi, l’aiuto da parte di persone, anche esterne al movimento, è sempre ben gradito, ma non tutti andavano bene. C’era chi non metteva i piedi in chiesa, chi non era sposato e conviveva, chi anche se praticante non la pensava come “noi” (tipico era lo scontro tra AC e CL), oppure chi non era simpatico al responsabile o ad un gruppo di persone dentro il movimento. Insomma invece di includere si escludeva. Bene, tutte queste situazioni, che mi è capitato di vivere a tutti i livelli ecclesiali, erano all’ordine del giorno, ma poi venivano appiattite con un bel: lodiamo Dio per l’amore che ci dona e pervade, facendoci tutti figli suoi! Ora, l’ipocrisia è ai massimi livelli: se siamo tutti suoi figli, perché escludere chi non la pensa come noi? Davanti a queste domande, ovviamente, nessuna risposta; oppure risposte eristiche: “per il bene della comunità, non possiamo esporre “modelli sbagliati”!”. Chi può dire se uno è “sbagliato”?
Altra esperienza che mi ha segnato sono stati gli incontri dei vari movimenti cattolici a cui ho partecipato. Non di rado si osannava di più il fondatore, lasciando quasi in soffitta il messaggio di condivisione o di amore reciproco, tipico del vangelo. Se si cercava di far notare questo, ci si ritrovava fuori in meno di un batter di ciglio!
Insomma, in nome dell’amore di Dio che amata tutti, alcuni sono più amati di altri! Ciò che rendeva il tutto ancora più triste, era l’atteggiamento palesato di non accettazione nei confronti di questi soggetti. Il più delle volte erano esclusi con tanto di etichetta messa in fronte senza mezze misure. L’inno alle potenzialità dell’Uomo veniva tranquillamente “buttato nel cestino” suffragato dalla benedizione del Padre Eterno!
Infine ero arrivato a non sopportare più le lectio divine, dove veniva dichiarato il proselitismo universale (conversione dell'umanità), facendo emergere la preoccupazione di non perdere gli adepti. A giustificazione si sbandieravano i versetti del vangelo dove ciò è esplicitato, senza però fare un’ermeneutica degli stessi, condendo il tutto con frasi tipo: “è per il bene dell'Uomo”. Ma cosa vuol dire convertire una persona? Il verbo convertire ha un significato di rottura con il passato. Vuol dire che prima avevi una tradizione, dei riti, delle festività che scandivano il tempo, dei comportamenti atti a dar senso a questo, insomma un’identità culturale, ora ne hai un’altra! Ma quale è l’impatto pedagogico che tale cambiamento comporta? Uno dei fattori di apprendimento e di comprensione della realtà è la cultura stessa. Insegna uno dei più grandi pedagoghi del nostro tempo, R. Feuerstein: “la cultura è uno dei mediatori più importanti per apprendere l’intelligenza, permette di trascendere dall’immediato, creando gli schemi mentali in grado di filtrare la realtà, imparando da essa. In altre parole insegna ad imparare, cioè l’intelligenza!” .
Ogni soggetto è un individuo unico ed irripetibile, slegato da cultura, ruolo sociale, grado di istruzione, ecc... Io rimango io, a prescindere dal resto, ma la cultura è un mezzo per raggiungere questa consapevolezza. Sostituirla, anche garbatamente e gradualmente, con un’altra che è nata in contesti diversi, con caratteristiche proprie, non è detto che porti allo stesso risultato. Ogni cultura porta con se i valori della realtà in cui è sorta, cercare di far perdere questo sostrato fecondante sarebbe il bene per l’altro?
Vedo già molti lettori che stanno dicendo: ma questo cosa va blaterando? E’ solo una sua idea, oppure è capitato in esperienze fuori dagli schemi! Bene, vi faccio una domanda: perché state giudicando? Se lo state facendo sulla base di queste quattro righe, vuol dire che siete abituati a farlo, vuol dire che considerate la vostra posizione superiore a quella di un’altro, per cui normalmente giudicate ciò che non è in linea con il vostro pensiero, esattamente come chi ho descritto sopra. E non ho toccato il tema della carriera, a discapito degli stessi “confratelli”. 
Ma cosa crea questo modo d’essere nella società? Crea allontanamento, crea disprezzo verso chi dimostra disprezzo, crea voglia di ribellarsi verso chi propina , come unico, il proprio punto di vista! Crea disagio e direi a ragion veduta! Chiunque abbia un po’ di buon senso non si fa mettere i piedi in testa da un’altro; giustamente si domanda chi è costui per poterlo calpestare. Crea quel processo di alienazione dalla religione che ha portato, nel corso degli ultimi decenni, ai fenomeni di secolarizzazione (così come li definisce la Santa Sede). Si legge nei documenti del Concilio Vaticano II: “Se molti non credono, la colpa è di voi cristiani per l’immagine di Dio che avete presentato e che non corrisponde al Dio dei vangeli”. Un’accusa forte, ma che se leggo la mia esperienza, si allinea molto. Il tutto è confermato anche dai fenomeni che i social network hanno messo in evidenza. Leggevo articoli in cui si tentava di spiegare i motivi sociali sottostanti gli attacchi al pontefice su Twitter, adducendo a comportamenti riprovevoli e poco propensi alla comprensione dell’altro. Chi ha scritto questi articoli ha almeno letto i post, oppure ha effettuato un’apologia aprioristica? Non mi interessa una risposta! Io i post li ho letti ed era chiaro un messaggio di fondo: la gente si sente esclusa! Esclusa perché di un orientamento sessuale, politico, ideologico diverso; esclusa perché neanche la seconda possibilità viene data; esclusa perché colpevole di voler capire con il proprio intelletto! Ma ciò che sconcerta è la mancanza di risposte, la mancanza di una dialettica da parte di questi soggetti. Quando, però, ciò avviene, viene ribadito il dentro o fuori (chi crede, il cristiano, ecc .. tutto con un perimetro). Continua l’esclusione!
Per questo mi sono allontanato dall’istituzione Chiesa; il messaggio proposto, o il modo d’essere tenuto, poco centra con il Maestro. Ma chi dovrebbe essere il cristiano? La miglior risposta l’ho finora trovata nel libro di Hans Küng, Essere Cristiani: “non chi dice <<Signore, Signore>> e asseconda un <<fondamentalismo>> - sia esso di tipo bibblico-protestante, o autoritario-romano-cattolico oppure tradizionalista-oriental-ortodosso. Cristiano è piuttosto colui che in tutto il suo personale cammino di vita (e ogni persona ne ha uno suo proprio) si sforza di orientarsi praticamente a questo Gesù Cristo. Di più non è chiesto”.

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