Μακάριοι (Macarioi) cioè Beati: LE BEATITUDINI (rivisitazione seconda parte)



Adesso vedremo, nel messaggio più alto fatto dal Maestro per l’Uomo, come si attua questa rivoluzione. Ribadisco il concetto, nel fare esegesi mutuerò i concetti evangelici, cioè quei concetti che gli agiografi del I-II secolo voglio trasmettere. Questo prevede che alcune affermazioni suonino strane ad atei che si accostano alla lettura di questo brano, ma il concetto finale trascende il credere o meno. Cominciamo:

Vedendo le folle”.: la buona notizia è dilagata, le folle sono entusiaste. Scoprono un Messaggio diverso da quello che era stato loro imposto. Ciò che viene predicato ha come base la felicità degli uomini e non c’è niente da dover fare per averla. Potranno dire di Gesù che è un bestemmiatore, un indemoniato, ma la gente sa percepire e quando sente formulare la risposta al desiderio di pienezza di vita e sa rispondere.

Gesù salì su il monte”: il monte, con l’articolo determinativo, significa un monte già conosciuto, non un monte qualunque. Che monte è? Bisogna riprendere il piano teologico esposto sopra: Matteo scrive per dei giudei che hanno accolto e conosciuto in Gesù il Messia, ma a condizione che sia sulla linea di Mosè, il grande profeta e legislatore. Matteo allora compie una grande opera letteraria e ricalca la vita di Mosè presentando quella di Gesù. Allora “il monte”, simbolicamente, è il monte Sinai, cioè il monte dove Dio ha concesso la sua Alleanza, ma c’è una grande differenza: Mosè era il servo del Signore ed ha imposto un’alleanza fra dei servi e il loro Signore. Gesù, che non è il servo del Signore, ma viene proposto con la pienezza divina, viene a annunciare un’alleanza tra dei figli e il loro Padre. Mentre l’alleanza di Mosè è basata sull’obbedienza alle leggi di Dio, l’alleanza di Gesù è basata sull’accoglienza e sulla somiglianza all’amore del Padre. Cambia così il concetto di credente. Chi è il credente secondo l’antica alleanza? E’ colui che obbedisce a Dio osservando le sue leggi. Ma questo è già un fattore di ingiustizia perché molte persone non possono o non vogliono osservare le sue leggi e dal momento che non osservano le leggi, sono escluse. Con Gesù chi è il credente? E’ colui che assomiglia al Padre , praticando un amore simile al suo. E l’amore tutti quanti lo possono accogliere.

si pose a sedere”: il Maestro, per proclamare le beatitudini, si siede. Che Gesù fosse in piedi, seduto o in ginocchio, per noi non cambia il contenuto del testo… ma non secondo l’evangelista. Il monte nell’antichità era il luogo della dimora degli dei, della condizione divina. Conosciamo tutti nella mitologia classica l’Olimpo, il luogo dove gli dei si manifestavano. Ebbene, Gesù sul luogo della condizione divina, si siede, si installa. L’evangelista vuol far ricorda il Gesù seduto alla destra di Dio, cioè che esso ha la piena autorità.

e si avvicinarono a lui i suoi discepoli”: mentre sul monte Sinai le persone non potevano avvicinarsi (pena la morte), al nuovo monte dell’alleanza le persone devono avvicinarsi per accedere alla pienezza della vita. Questo è un cambio di mentalità non indifferente. Per essere in “grazia di Dio” bisogna sentirsi dei vermi, ora con il Maestro, per essere in “grazia di Dio” bisogna accedere al luogo della divinità, porsi nello stesso stato della divinità. 

Si mise a parlare e insegnava loro dicendo”: qui l’evangelista, in maniera ridondante, utilizza sia il verbo parlare che il verbo dire. Poteva semplicemente scrivere “e insegnava dicendo”. Perché lo fa? E’ chiaro che , se vuole insegnare, deve aprire la bocca, ma vuole ricordare la risposta che Gesù dà a satana nel deserto: “non si vive di solo pane ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. L’evangelista continua a identificare Gesù con la pienezza dell’autorità divina. Qui che iniziano le beatitudini.

Beati i poveri per lo spirito perché di questi è il regno dei cieli”: vediamo subito di esaminare questa beatitudine che non è collocata al primo posto a caso. Questa è la condizione che regge l’esistenza delle altre. Ha il verbo al presente: “di questi è il regno”, tutte le altre, a eccezione dell’ultima (cfr. articolo precedente) hanno il verbo al futuro, esse sono infatti l’effetto dell’accoglienza di questa beatitudine.
La prima beatitudine è quella che è stata più fraintesa ed è quella che ha fatto credere che Gesù avesse proclamato beati i poveri. No, mai Gesù nei vangeli proclama beati i poveri; i poveri sono disgraziati ed è compito della comunità togliere dalla loro condizione di povertà. Questo è il disegno di Dio sull’umanità che anche il Vecchio Testamento mostra: “nel mio popolo nessuno sia bisognoso”. 
Qui bisogna fare un po’ di cenni storici per comprendere. A quell’epoca non si credeva nell’esistenza di un dio unico, ma ogni nazione aveva la sua divinità; si trattava di vedere quale era la più importante, la più gloriosa. Ebbene, se tra di voi non ci sarà alcun povero, quella sarà la prova della presenza di Dio, la prova che questo Dio è grande. Questa sarà anche la prova della presenza del Maestro secondo gli atti degli apostoli: “testimoniavano con gran forza la risurrezione di Gesù”, come? Con grandi cerimonie? Con grandi preghiere? No, “testimoniavano la risurrezione di Cristo perché nessuno tra di loro era bisognoso”. La prova della presenza della beatitudine è l’assenza dei bisognosi. Quindi mai Gesù ha proclamato beati i poveri, ma proclama “beati i poveri per lo spirito”. 
Per poter capire cosa voglia dire qui l’agiografo dobbiamo comprendere sia come tradurre la particella greca τῷ, adoperata da Matteo, sia il significato di Spirito. La prima si presta a tre interpretazioni, qui eviterò di entrare in tecnicismi linguistici. Il secondo, anche lui, ha tre differenti interpretazioni in Matteo. Cominciamo da quest’ultimo. Per Spirito Matteo intende:

  • un’energia divina che potenzia, santifica e ispira l’uomo. Questa accezione è normalmente utilizzata dall’evangelista sotto il termine “Spirito Santo”;
  • una forza negativa che aliena la persona. Quest’accezione è normalmente utilizzata dall’evangelista sotto il termine “spirito immondo”;
  • una forza interna all’uomo in grado di fargli produrre scelte e azioni. 

Quest’ultima è l’accezione che secondo noi dev’essere utilizzata per l’interpretazione di questo passo. Adesso tratteremo la particella greca τῷ. Per brevità (come vi sarete accorti l’articolo è un po’ lunghetto) e per semplicità tratterò solo dei possibili significati che questa particella può assumere, senza entrare in tecnicismi filo-letterari: :

  • il primo significato che possiamo darle è quello di “di”, quindi potremmo leggere “beati i poveri di spirito”, cioè una persona deficiente, che gli manca qualche cosa, definizione che scartiamo subito, non è infatti possibile che Gesù proclami come massima aspirazione degli uomini, massima felicità, quello che è un handicap. Non è certo questo un traguardo;
  • la seconda interpretazione può essere “beati i poveri nello spirito” ed è l’interpretazione che ha avuto più fortuna e successo. Chi sono i poveri nello spirito? Sono quelle persone che pur avendo dei beni ne sono “spiritualmente distaccati”. La povertà di spirito si era trasformata in “spirito di povertà. Uno ha dei beni, ma ne è distaccato, un distacco che non prevede ne di sbarazzarsene, ne di donarli. Si tratta di averli, ma senza esserne legati. Una interpretazione che cozza con quanto Gesù chiede al ricco. Infatti in quella situazione il Maestro non chiede, a questo giovane benestante. un distacco spirituale. Non gli dice “tieni pure i tuoi beni, l’importante è che tu ne sia distaccato spiritualmente”. No, il distacco che Gesù chiede è reale, immediato e concreto;
  • Resta, allora, un’ultima ipotesi che è “beati i poveri per lo spirito”. Sono quelle persone non che la società ha reso povere ma che per lo spirito, per la forza, per l’amore che hanno, decidono di entrare nella condizione di povertà. Non per aggiungersi ai tanti, troppi poveri che la società produce, ma proprio per eliminare le cause della povertà. E’ questo quello che Gesù ci chiede.

Quindi Gesù proclama immensamente beati, felici, quelli che volontariamente, liberamente e per amore decidono di entrare nella condizione di povertà. Che significa? Non certo andare ad aggiungerci ai tanti altri poveri. Gesù non ci chiede di spogliarci ma chiede di vestire gli altri. Gesù chiede di abbassare un po’ il nostro livello di vita per permettere a quelli che l’hanno troppo basso d’innalzarlo un po’. Gesù chiede non l’elemosina ma la condivisione. Mentre l’elemosina presuppone un benefattore e un beneficato, per cui rimane sempre una differenza, la condivisione che Gesù propone, crea dei fratelli. Allora Gesù dice: “quelli che liberamente , volontariamente e per amore, si sentono responsabili della felicità e del benessere degli altri sono felici, immensamente felici, perché di essi è il regno dei cieli”. 
Qui si presenta un nuovo problema. Il regno è stato interpretato in passato come un regno “nei” cieli. Un regno che sta oltre l’immanenza umana, che sta nella trascendenza. Nulla di tutto questo. Sappiamo che Matteo scrive a una comunità di giudei ed è attento a non urtare la suscettibilità dei suoi interlocutori. Sa infatti che, nel mondo giudaico, il nome di Dio non si pronuncia né tanto meno si scrive. Allora tutte le volte che l’evangelista ne ha la possibilità sostituisce il termine Dio con termini che lo raffigurano, uno di questi è “cielo”. “Regno dei cieli” quindi, nel Vangelo di Matteo, è il “regno di Dio”. Ma cosa significa questo? Israele, dopo l’esperienza della monarchia – che era stata un totale fallimento - aveva proiettato in Dio l’immagine ideale del re e, secondo la Bibbia, re ideale è colui che si prende cura del povero, dell’orfano, della vedova, cioè delle persone che non hanno nessuno che pensi a loro. Ora possiamo capire che la beatitudine non è una promessa per il futuro ma è una proposta per l’immediato. L’abbiamo visto nell’uso del verbo “è”, non “sarà”. Gesù si rivolge a una comunità : il messaggio è per individui che formano una comunità. Il Maestro non è venuto a formare dei santi ma a dare un messaggio che cambi le strutture stesse della società. Le società si basano su tre azioni che portano rivalità e inimicizia: AVERE, SALIRE, COMANDARE; possedere sempre di più per salire al di sopra degli altri e poterli comandare. Ebbene il Regno che propone Gesù è una società dove al posto dell’accumulo dei beni c’è la gioia della CONDIVISIONE; dove alla bramosia di salire sopra gli altri c’è la gioia di SCENDERE (che significa non considerare nessuno inferiore a se stessi) e al desiderio di comandare c’è l’esperienza gioiosa del SERVIRE gli altri. Questo è il Regno di Dio. Un cambio radicale nei valori che reggono la società.
Quindi Gesù proclama beati, felici coloro che liberamente, volontariamente e per amore fanno la scelta di sentirsi responsabili della felicità e del benessere degli altri. Felici perché? Perché l’elargire, il condividere porta anche gli altri a fare questo e quindi a prendersi a loro volta cura di me. E’ un cambio meraviglioso! Se noi ci occupiamo degli altri, permettiamo a Dio di prendersi cura di noi. E’ un cambio radicale del rapporto con il Signore, lo si sente presente nella propria esistenza, non dobbiamo più preoccuparci del nostro rapporto con Lui, l’unica nostra preoccupazione è prenderci cura degli altri, ai nostri bisogni, alle nostre necessità ci pensa Dio stesso: ecco la beatitudine! E’ una proposta tutta a vantaggio degli uomini perché Gesù non si lascia vincere in generosità. Ogni volta che trasformiamo l’amore ricevuto da Dio in amore comunicato agli altri attiriamo da parte di Dio una risposta ancora più grande e questo è il fattore di crescita delle persone. La prima beatitudine è dunque la scelta di essere responsabili della felicità delle persone. Chi fa questo sperimenta un cambio straordinario nella sua esistenza, si rende conto che Dio si prende cura come un padre della sua persona, del suo benessere.
Come dicevo la risposta di Gesù alla scelta di condividere è una risposta teologica, ma se l’associamo agli atti, vediamo che la testimonianza che ne esce è l’eliminazione del bisogno. I soggetti abitanti le comunità che applicavano questo messaggio, non risultavano bisognose. Questa è la reale risposta! Chi fa la scelta di prendersi cura dell’altro genera una reazione a catena che provoca la distribuzione di questa condivisione arrivando a ricevere, quello che ha distribuito, moltiplicato. Questa risposta “è il regno dei Cieli”: la capacità dell’amore gratuito di generare nuovo amore gratuito!

Se c’è questa scelta da parte di una comunità, ecco che Gesù presenta le possibili conseguenze positive nell’umanità, per fare ciò l’evangelista elenca alcuni casi emblematici di sofferenza all’interno delle altre beatitudine che adesso andremo ad analizzare.

Beati gli oppressi perché saranno liberati”: per comprendere le beatitudini, non dobbiamo mettere la beatitudine ai soggetti ma nella risposta. Dobbiamo cioè leggere questa beatitudine così: “gli oppressi beati perché? Perché saranno liberati”. La beatitudine non consiste nell’essere oppressi ma nel fatto di essere liberati dall’oppressione. Chi sono questi oppressi? L’evangelista si riferisce al cap.61 del profeta Isaia, dove l’autore dice che l’attività del Messia sarà di consolare gli afflitti di Sion. Afflitti sono persone oppresse da una situazione sociale, economica e religiosa tale da non poter far a meno di gridare il loro dolore. Sono le persone schiacciate dalla società, da un poter economico, civile e religioso che li opprime. L’evangelista fa un uso accurato dei termini. Non dice , infatti che gli afflitti saranno “confortati”; il conforto è un aiuto morale che lascia il tempo che trova ma usa il verbo “consolare” che significa l’eliminazione alla radice della causa della sofferenza. Perché questo? Perché se c’è una comunità che decide di prendersi cura della felicità degli altri, quelli che sono stati schiacciati, oppressi vedranno la fine della loro afflizione.

Beati i diseredati perché erediteranno la terra”: se si prende la traduzione classica: beati i miti, questa beatitudine risulterebbe non avere il corrispettivo positivo all’azione della beatitudine, infatti cosa centra la terra con i miti? Questa traduzione ha fatto si che si sia cercato, nel corso dei secoli, di spiritualizzare la beatitudine per cui la mitezza è diventata obbedienza, specialmente verso l’autorità e la terra da ereditare è diventato il regno dei cieli. Ovviamente nulla di tutto questo. L’evangelista si rifà alla storia del suo popolo e cita il salmo 37. Il salmista cerca di calmare gli animi della popolazione esacerbata. Quando le tribù d’Israele erano entrate nella terra promessa e avevano preso possesso della terra di Canaan, questa terra fu divisa secondo le tribù. Ogni tribù divise la regione secondo i clan famigliari in modo che ogni famiglia potesse avere un terreno. La terra è importante, significa la dignità della persona. Se io ho un terreno, lavoro, mangio e posso fare stare bene i miei famigliari, ma se non ho un terreno, nulla di tutto questo. Per cui avere terreno è avere dignità. Un proverbio arabo ancora oggi dice: “un uomo senza terra è un uomo senza dignità”. A questa spartizione ideale, nel giro di un paio di generazioni, era capitato qualcosa che ancora oggi avviene: i più furbi, intraprendenti, capaci, i più prepotenti si sono impossessati del terreno del vicino meno capace o intraprendente. Nel giro di poche generazioni poche famiglie si erano impossessate della terra e molte persone dovevano andare a lavorare come braccianti nella terra che era stata loro o dei loro genitori. Allora questi protestavano e il salmista cerca di calmarli. Dice: “non preoccupatevi, un giorno questo cambierà e voi avrete in eredità un terreno”. Gesù riprende quest’aspetto e proclama beati i miti. Mite non indica una qualità del carattere della persona ma una condizione sociologica negativa. E’ la stessa differenza che c’è tra umili e umiliati. Qui non si tratta di umili ma di persone umiliate. Allora per capire traduciamo “diseredati”. Gesù indica quelli che hanno perso tutto. Non sta a noi giudicare perché hanno perso. Sono i diseredati di questa terra. Gesù a differenza del salmista non dice “erediteranno un terreno” ma “la terra”. L’articolo determinativo indica la totalità. Cosa vuol dire? Quelle persone che hanno perso tutto, gli “invisibili” della società, questi grazie alla comunità – che ha fatto la scelta della prima beatitudine - troveranno e riscopriranno una dignità di una qualità tale che non avevano mai conosciuto. Queste beatitudini vengono come riassunte nella terza che Gesù proclama (per maggiori dettagli mio articolo precedente).

Beati gli affamati e i desiderosi di giustizia perché saranno soddisfatti”: quelli che ne fanno una questione vitale, che soffrono nel vedere che ci sono persone diseredate, oppresse. Quelli che sono affamati, assetati di questa giustizia saranno saziati. All’interno della comunità cristiana che ha fatto la scelta delle beatitudini non esiste alcuna forma di ingiustizia, di sopraffazione Gesù ha un’atteggiamento ben preciso: nessuno possa essere considerato al di sopra degli altri, nessuno pensi di comandare gli altri, ma siete tutti quanti fratelli gli uni al servizio degli altri. Quindi, quelli che hanno fame e sete di questa giustizia, grazie all’accoglienza delle beatitudini, saranno pienamente saziati.

Beati coloro che attuano misericordia perché otterranno misericordia”: il termine misericordioso non indica una qualità dell’individuo o un carattere della persona, ma un’attività che rende riconoscibile la persona come tale. L’effetto della prima beatitudine di orientare la vita secondo il bene degli altri fa sì che la persona sia sempre disponibile. Non una volta ogni tanto (siamo tutti capaci di fare il buon samaritano una volta ogni tanto). Il termine “misericordioso” è un’attività che rende riconoscibile la persona come tale. E’ un’azione abitudinaria. I misericordiosi sono quelle persone che, noi siamo certi, quando saremo nel bisogno ci diranno sempre di sì. Quando abbiamo una necessità, un’emergenza, quella persona che ci viene in mente, quella è misericordiosa. Quindi potremmo tradurre: “quelle persone che sono sempre disponibili, sempre pronte ad aiutare”. Il Maestro dice: “beate perché sempre saranno aiutate. Quando si troveranno nel bisogno, troveranno una risposta da parte di Dio immensamente superiore alla necessità”. Dio non si fa vincere in generosità, dona sempre molto di più.
Ovviamente anche questo concetto dev’essere attualizzato. In una comunità dove l’atteggiamento della misericordia, così come l’abbiamo descritta, è alla base del comportamento quotidiano, colui che sempre è disposto a donarsi agli altri in caso di loro bisogno, può stare certo di trovare altrettanto quando risulterà lui in questo stato. Si tratta sempre di orientare la propria azione, orientandola si genera quell’input che permette anche agli altri di orientare se stessi, arrivando a ottenere molto di più. Detto questo continuiamo con una lettura teologica della beatitudine, senza però dimenticarsi questo aspetto appena descritto.
C’è un’espressione nel Vangelo di Marco molto importante: “La misura con cui misurate, sarete misurati e vi sarà dato in aggiunta” che significa che quello che noi diamo ci viene ridato, e Gesù assicura ci sarà dato anche in aggiunta. Se noi, poi, abituati a donare ciò che abbiamo (ma adesso abbiamo qualcosa in più) doniamo anche quel qualcosa, ecco che ci verrà dato ancora di più. La si potrebbe leggere così, io dono 100, la mia misura, Dio mi restituisce 100 + 30, quindi 130. A questo punto dono 130, ma ecco che Dio mi restituisce 130 + 50 e quindi ho 180. Così via. Ma di cosa si parla qui? Qui si parla dell’amore e più si dona amore, più si ha grazia e si cresce dentro per essere pronti a donare di nuovo in maggiore quantità. Ecco perché Gesù ha anche detto quell’espressione che, così com’è tradotta e interpretata, dà modo a un’interpellanza sindacale: “a chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. Sembra di un’ingiustizia pazzesca. Analizziamo il passo. Il verbo avere è un verbo risultativo, perché quando io dico io ho, è sempre il risultato di un’azione. Ho questa giacca che mi è stata regalata, ho questo libro perché mi è stato comprato. Il contesto in cui si colloca la frase risulta essere subito dopo la narrazione della parabola dei 4 terreni, dove vi è un seme che è capace di produrre e fruttificare. Allora il significato è questo: a chi produce sarà data capacità di produrre ancora di più. Chi ha colto il messaggio di Gesù, lo traduce in atteggiamenti pratici, più si dona agli altri e più gli viene data capacità di dare. Chi invece non si dà agli altri, chi non produce rende sterile la propria capacità di amare, e quando arriva il momento che ne ha bisogno, non ne è capace. Se io mi alleno quotidianamente a superare gli inevitabili screzi che la vita comune, la vita famigliare, la vita sociale, comporta, quando arriverà il momento del torto, dell’offesa, sarò capace di perdonare perché mi sono allenato. Ma se io mi lego al dito tutti gli screzi, tutte le offese, quando arrivo al momento grosso del torto, ne sarò incapace. A chi ha sarà dato, a chi produce amore sarà data ancora più grande capacità di amare, e a chi non ha sarà tolta anche quella capacità.
Allora Gesù vuole dire: “quelle persone che sono sempre disponibili ad aiutare, a rivolgersi verso gli altri, sono beate perché quando si troveranno nel bisogno saranno immediatamente aiutate e riceveranno molto più”.

Beati i trasparenti perché vedranno Dio”: incominciamo con il dire che per cuore, nella cultura ebraica non s’indica gli affetti, ma la coscienza. Mi rendo conto che la tradizione occidentale ha sempre associato questa parola ai sentimenti, agli affetti. Noi occidentali parliamo di cuore come quel centro della vita affettiva e spirituale. Ma i vangeli non furono scritti da europei, ne tanto meno ai nostri giorni. Per cui queste parole devono essere rilette alla luce della tradizione di chi le utilizzò. Poiché l’agiografo è più o meno del I-II secolo dopo Cristo ed è molto probabilmente uno scriba, bisogna collocare il termine cuore nella sua epoca e cultura. Per comprendere a pieno il significato di questo temine bisogna quindi andare a prendere i passi del Vecchio Testamento dove ci si riferisce a esso. Si legge, per esempio, nel I libro di Samuele, a riguardo di un tizio, Nabal: “il suo cuore gli morì in petto ed egli divenne come una pietra. Dieci giorni dopo il Signore colpì Nabal e lui morì”. Allora il cuore gli morì, per dieci giorni diventa come una pietra, e dopo  altri dieci giorni il Signore lo fa morire di nuovo, ma allora cosa significa il cuore? Il cuore significa la testa, il pensiero, cioè a questa persona gli è venuto un attacco celebrale e dopo dieci giorni è morto. Allora quando nel vangelo o nell’Antico Testamento leggiamo che una persona è dura di cuore, non significa una persona crudele, ma una persona testarda, perché il cuore indica la testa.
Specificato il significato di cuore, possiamo pure a specificare il senso di “puro di cuore”. Questo è il soggetto limpido, trasparente. L’evangelista qui cita il salmo 24, dove la purezza di cuore era tra le condizioni per l’accesso al Tempio. Quand’è che una persona è limpida, trasparente? Quando ha rinunciato all’ambizione di essere al di sopra degli altri, di essere diversa. Quando si è accolta la prima beatitudine, si tolgono tutte le maschere, le finzioni. Essere limpidi, trasparenti significa avere sulla lingua quello che si ha nel pensiero, non ci sono finzioni, menzogne. Ebbene queste persone sono “beate perché vedranno Dio”. Attenzione: non è una promessa per l’aldilà, tutti nell’aldilà vedranno Dio, anche chi non è stato puro di cuore (e non c’è religione universale che neghi questo). L’esperienza del conoscere, qui esposta dal Maestro, è un’esperienza nel “di qua”. Non si tratta di assicurare visioni o apparizioni o altre stregonerie del genere. Nulla di tutto questo! Il verbo usato dall’evangelista per “vedere” (ὁράω) non indica la vista fisica (che in greco s’indica con il verbo βλέπω) ma una profonda esperienza interiore. Ed è importante questo verbo perché lo ritroveremo al momento della Risurrezione.
Le beatitudini sono strettamente collegate alla Risurrezione. Quando Gesù risuscita dice alle donne “andate a dire ai miei discepoli che se vogliono vedermi vadano in Galilea e là mi vedranno”. Gesù non si presenta, secondo Matteo, ai discepoli in Gerusalemme, ma li manda in Galilea. Essi vanno in Galilea e, scrive l’evangelista, vanno sul monte che Gesù aveva loro indicato. Ma Gesù non aveva indicato loro nessun monte… qual è allora questo monte? Quello delle beatitudini: cioè il vivere a pieno questo messaggio. E là lo videro.
Cosa vuol dire l’evangelista? L’esperienza del Cristo risuscitato non è stato un privilegio concesso duemila anni fa a un piccolo gruppo di persone, ma una possibilità per tutte le genti di tutti i tempi. Allora il verbo “vedere” indica una profonda esperienza e percezione della presenza di Dio nella propria esistenza. Se è vero che noi siamo immersi nella presenza di Dio, perché non lo percepiamo? Per quale motivo? Vedete, come informatico, quando mi capita di andare in bicicletta con i miei amici per la vasta campagna del Po’, mi diverto a ricordagli che la rete ci circonda, che ovunque c’è internet, basta prendere un’antenna e/o un cellulare, e anche nel posto più remoto si può essere on-line e arrivare dall’altra parte del modo. La rete è tutt’intorno a noi, ma per utilizzarla devo avere gli strumento idonei. Stessa cosa con le “onde” vitali dell’amore di Dio! Ma perché non se ne fa l’esperienza? Perché non abbiamo creduto al suo messaggio. Vedete, ci sono espressioni di Cristo che non vengono credute. Sono talmente esagerate che sono rimaste lettera morta. Sì, si leggono ma non ci crediamo. E non ci crediamo perché non le pratichiamo. A es. : Gesù ci dice di perdonare e non solo, ma anche di parlare e fare del bene a chi ci ha fatto del male. Roba impossibile, non lo fa nessuno. Se arriviamo a perdonare, già abbiamo esaurito tutte le nostre energie e non ce ne restano altre. Ma il perdono è soltanto il primo passo che Gesù ci chiede di fare. Dopo il perdono bisogna far del bene a chi ci ha fatto del male. Ma siamo matti? E addirittura bisogna parlare bene di chi ci ha fatto del male.
Ebbene, facciamo tante prove nella vita, perché non facciamo anche questa? Proviamoci. La nostra vita cambia radicalmente. Sapete cosa succede? Quando noi siamo capaci di far del bene a chi ci ha fatto del male, innalziamo il livello della nostra capacità di amore, questo entra in sintonia e s’intreccia con l’onda di amore di Dio che così fa con noi e da quel momento, la nostra vita e quella di Dio sono strettamente connesse e non si separeranno più. Si percepisce la presenza di Dio in certi particolari momenti e situazioni, un Dio che non si prende soltanto cura delle situazioni importanti dell’esistenza, ma anche di quegli aspetti che sembrano minimi, secondari della propria vita.

Beati i pacificatori perché saranno chiamati figli di Dio”: prima di tutto i termini. Gesù non proclama beati i pacifici, ma i pacificatori, i costruttori di pace. Qual'è la differenza?

• Il pacifico è una qualità dell’individuo, è colui che tiene tanto alla sua pace che evita accuratamente ogni situazione di conflitto.
• Il pacificatore è un individuo che per la pace degli altri, crea situazioni conflittuali, i costruttori di pace sono dei gran rompiscatole, perché per la pace degli altri sono pronti a perdere la propria.

Ma vediamo chi sono questi personaggi. Costruttori di pace: anche qui l’evangelista non indica una qualità dell’individuo, ma un’attività che rende pienamente riconoscibili. La parola pace la conosciamo dall’ebraico “shalom”, è molto più ricca del nostro termine pace: pace significa tutto quello che concorre alla piena felicità degli uomini. Quindi vedete ancora una volta che il progetto di Dio è che gli uomini siano felici. Sottolineo questo perché purtroppo conosco persone che associano più facilmente Dio all’infelicità che alla felicità; non solo ci sono tante persone che non vivono serenamente neanche quei periodi di tranquillità e di felicità che la vita offre, hanno paura che se ne accorga il Padre eterno!!. Tanto è vero che nel linguaggio popolare quando nella vita capita qualcosa d’inevitabile, si dice: lo sentivo che doveva succedere qualcosa, andava tutto troppo bene! Questa è l’immagine pagana della divinità, degli dei che quando si accorgevano che qualcuno raggiungeva una soglia di felicità che a loro sembrava intollerabile, ecco che gli davano una mazzata.
Molte persone, la parola “felicità”, hanno paura di pronunciarla perché sembra che non sia possibile associata a Dio, tanto è vero che siamo tutti eredi della famosa “valle di lacrime”, la piscina spirituale dove le pie persone sguazzano piamente e devotamente. Non è questo il messaggio di Gesù: egli c’invita alla pienezza della felicità qui, è possibile essere felici qui. Per la deformazione spiritualizzante che c’è stata in passato, molte persone credono che essere felici, essere gratificati, non sia corrispondente alla volontà divina. Sembra che se uno non si sacrifica, se uno non soffre, questo non sia accetto agli occhi del Signore. La persona felice sembra che non sia in sintonia con Dio. Basta guardare l’iconografia del passato, guardate i santi, che allegria, che facce particolari che hanno! Avete mai visto un santo felice? Un santo sorridente è raro, sono sempre mesti. 
E’ volontà di Dio che su questa terra si realizzi la felicità e Gesù ci chiede di collaborare alla creazione di Dio. Vedete, nella teologia giudaica si credeva e si insegnava che Dio aveva lavorato per 6 giorni e il settimo si era riposato, aveva creato il mondo, l’universo, poi gli uomini l’avevano guastato, ma Dio aveva lavorato. Gesù non è d’accordo: quando gli rimproverano di non osservare il sabato, nel vangelo di Giovanni Gesù risponde: “il Padre mio lavora e anch’io lavoro”, la creazione non è terminata. La narrazione che troviamo nel libro del Genesi di quell’armonia tra l’uomo e la donna, tra l’uomo e il creato, non è un rimpianto di un paradiso perduto, ma la profezia di un paradiso da realizzare.
Quindi non c’è da rimpiangere un paradiso perduto, ma da rimboccarci le maniche per realizzare questo paradiso. 
Ecco perché Paolo nella lettera ai Romani ha un grido: “l’umanità, la creazione geme nell’attesa che diventiate figli di Dio”. Questa è la volontà di Dio, che noi diventiamo collaboratori della sua creazione; questo significa essere costruttori di pace. Ecco perché in questa beatitudine c’è l’equivalente: perché questi saranno chiamati figli di Dio.
Figli di Dio nel mondo ebraico ha 2 significati (oltre al canonico essere generato):

1. di assomigliante (figlio di Dio significa che assomiglia a Dio)
2. di protezione da parte di Dio.

Ci sarebbero una serie di esempi a supporto di questo, sia nel Vecchio che nel Nuovo testamento), un esempio su tutti in Gv. 1:42b in cui il Maestro chiama Simone figlio di Giovanni, in questo caso il Battista. Qui Gesù si rivolge a Simone identificandolo simile al Battista per idee, modo di agire e relazionarsi. Ecco la figliolanza per modalità e non per discendenza.

Ebbene Gesù assicura: quelli che costruiscono la pace, cioè quelli che lavorano per la felicità, per la dignità e la libertà degli uomini, beati perché prima di tutto assomigliano a Dio. Se assomigliano a Dio significa che fanno lo stesso lavoro di Dio. E poi beati perché avranno Dio dalla parte loro. Dio sta dalla parte non di chi toglie la felicità, ma di chi la costruisce, non di chi toglie la dignità, ma di chi restituisce la dignità agli uomini, cioè Gesù c’invita a collaborare alla creazione.
Vedete, c’è un’espressione nel NT che traduciamo male a causa del nostro limite dovuto alla mentalità occidentale e non secondo i criteri orientali. Quando in Paolo, o anche in altri passi, si parla che noi siamo stati scelti per essere figli adottivi di Dio, noi abbiamo la nostra immagine occidentale in cui l’adozione è quel gesto d’amore con il quale si prende un bambino nel seno di una famiglia; ma il significato teologico di essere figli di Dio, figli adottivi di Dio è molto più ricco. A quell’epoca si usava così: quando un re o un imperatore vedeva la sua vita ormai alla fine, non lasciava il suo regno il suo impero ad un figlio suo
naturale, ma sceglieva tra i propri generali, tra i propri ufficiali la persona che gli sembrava più adatta, la più capace di continuare come lui il suo impero, e l’adottava come figlio.
È questa l’adozione a figli, cioè un Dio talmente innamorato degli uomini, un Dio che ha talmente stima di noi che ci chiede di essere suoi figli adottivi, cioè di collaborare con Lui e come Lui alla creazione del mondo, a costruire la pace.


Le beatitudini finiscono con una “doccia fredda”. Abbiamo visto che la prima beatitudine non è una promessa per il futuro ma lo è per l’immediato (se questa sera prendiamo la decisione di orientare la vita per il bene degli altri, immediatamente permettiamo a Dio di prendersi cura di noi).
Poi ci sono le promesse per l’umanità, gli effetti nella comunità che accoglie le beatitudini, ed ecco la doccia fredda che non ci saremmo aspettati:


Beati i perseguitati a causa della giustizia perché di essi è il Regno dei cieli”: è la beatitudine più complessa da commentare. E’ la beatitudine della consapevolezza (così la chiamo io), cioè quella della super doccia fredda! Mai capitato di fare un progetto lavorativo, questo è fatto a step, ci sono i SAL, le riunioni d’ingaggio, eccetera. Poi, a circa due o tre mesi dal via ecco la doccia fredda! La consapevolezza che qualcosa non è stato fatto e che quindi si deve rivedere il progetto. Mai capitata questa sensazione? A me si! Questa beatitudine rappresenta proprio questa sensazione, addirittura viene rafforzata volutamente dai versetti 5,11-12, che sicuramente uno non digerisce molto facilmente. Però se ci pensiamo con calma tutto trova un senso logico: la scelta di un programma come quello fin qui descritto non può non portare a una rivoluzione, una rivoluzione in primo luogo interiore, il totale orientamento della propria coscienza verso gli altri, e in seconda battuta esteriore, una comunità basata su questo messaggio inevitabilmente cozza con gli interessi di qualcuno. 
Per capire quest’ultimo versetto (quindi anche i due versetti successivi) bisogna precisare che per giustizia s’intende colui che è fedele, colui che decide di fare suo questo progetto costi quel che costi. Il Maestro, in quest’ultima beatitudine, ci dice: “se fate questa scelta, una scelta fedele fino in fondo, una scelta drastica di rivolgere i vostri sforzi agli altri, non verrete osannati, ma verrete perseguitati”. Questo è il monito del Maestro proclamato nelle ultime righe del brano in analisi, ma c’è di più perché Gesù specifica anche chi saranno coloro che maggiormente si opporranno a questa novità. Il termine greco adoperato dall’evangelista, come soggetto, indica “perseguitati in nome di Dio”. Gesù, nel Vangelo di Giovanni dice: “Arriverà il momento in cui chi vi ammazza crederà di rendere culto a Dio”. Questo perché la comunità che accoglie le beatitudini, è la comunità nuova e sarà causa di turbamento, di scompiglio dentro le strutture religiose, sociali, politiche ed economiche che riverseranno la loro ostilità verso il diverso, il nuovo. Ogni cambiamento, ogni novità, vengono viste come un attentato alla sicurezza dei propri interessi. Una comunità che vive secondo lo spirito delle Beatitudini, è una comunità dove nessuno si mette al primo posto, dove nessuno prevarica l’altro, ma anzi è sempre disposto ad aiutarlo, è sempre al servizio. Dove la ricchezza è distribuita e la giustizia è il substrato. Dove l’amore dell’uno verso l’altro ha la meglio sui propri egoismi. Capite che una comunità così fa paura, fa paura perché non necessità più di quei meccanismi di controllo, non necessità più di quelle istituzione che devono dire come e cos’è necessario fare per essere dentro, oppure fuori, buoni o cattivi. Fu il motivo del perché, per esempio, nei primi 200 anni di vita del cristianesimo i primi gruppi cristiani vennero perseguitati anche  fisicamente. Non ritenevano più necessario far parte di un’entità, di uno stato, ma messo tutto in condivisione, essi risultavano slegati dalle autorità. Per potare un esempio: intorno al 112 Gaio Plinio II, governatore romano della Bitinia (una provincia dell’Asia Minore), chiede istruzioni all’imperatore Adriano in merito ai “cristiani” accusati di vari reati, i quali, in base ai suoi accertamenti, rifiutano di tributare all’imperatore l’onore del culto, altro non facendo, apparentemente, che condividendo tutto e innalzare inni “a Cristo come a un Dio”. Ecco un cenno storico degli effetti che porta accogliere le beatitudini: essere comunità slegate e in comunione. Ma, purtroppo, sappiamo anche come andò a finire.
Quindi Gesù dice: “per la fedeltà a queste beatitudini, sarete perseguitati, ma gli effetti negativi della persecuzione vengono annullati perché di essi è quel regno di Dio che abbiamo visto nel secondo articolo. Di essi è quella comunità dove si sperimenta la condivisione, l’aiuto, il supporto. Quindi l’evangelista ci vuole dire che chiunque abbracci questo programma sicuramente andrà incontro alla persecuzione, ma questa non sarà causa di morte perché Dio mette a disposizione la sua comunità, fatta di altre persone che hanno abbracciato questo stesso messaggio, a sostegno. 
Ci sono sicuramente un paio di punti che hanno fatto storcere il naso a qualcuno e che adesso cerco di delucidare. Per spiegarli vorrei raccontare la storia di una santa che credo conosciate tutti, questa donna straordinaria che è stata Teresa di Avila. Era entrata tra le monache di clausura, ma lei era la donna delle beatitudini, cioè in sintonia con Dio, sentiva insufficienti i mezzi, gli strumenti che la regola le dava e aveva bisogno, proprio perché era in sintonia con Dio, di agire in una forma nuova. Ebbene il vescovo scrive al Santo Uffizio queste testuali parole: “ho qui nella mia diocesi una monaca che è femmina inquieta e vagabonda”. È un autoritratto bellissimo, la monaca femmina inquieta e vagabonda, la chiesa, dopo un po’ di tempo l’ha riconosciuta “dottore della chiesa”, invece del vescovo si è persa la memoria. Ma aveva ragione, povero cristo: o Teresa mia, sono secoli che le monache diventano sante con queste regole, che bisogno c’è di modificarle, di cambiarle? Ecco gli uomini delle beatitudini, i costruttori di pace, quelli che sono in sintonia con Dio, trovano i mezzi dei loro contemporanei, sempre insufficienti e avranno bisogno di crearne sempre nuovi perché la comunità voluta da Gesù è una comunità dinamica animata dallo Spirito. Ma ecco anche la persecuzione, che non è per forza fisica, ma anche psicologica, mediatica, eccetera. Persecuzione che in ogni caso non ha la meglio, come la storia di Santa Teresa insegna.

Questa è la buona notizia: Dio vuole, desidera che gli uomini siano pienamente felici. Chi non lo desidera è l’uomo stesso, il suo egoismo! Per questo il Maestro ha proclamato l’ultima beatitudine, consapevole che la scelta di condivisione porta inevitabilmente a rovinare i progetti a qualcun d’altro. Tant’è che quando Gesù finì questa proclamazione, le folle (in greco ὄχλους - qui apro una parentesi lunga: è bello che l’evangelista usi questo termine e non popolo. Per popolo, nel VT, s’intende il popolo di Dio, per cui se avesse usato questo lemma avrebbe legato il messaggio delle beatitudini solo a Israele. Usando il termine genti, l’ha voluto associare a tutti i popoli della terra) non furono prese da entusiasmo. Non si legge nel vangelo che osannarono di felicità il Maestro. Questo aveva appena espresso com’essere beati (cioè pieni di quella felicità che spetta solo agli dei), ma nessuno acclama. Anzi deve pure aggiungere quella famosa frase che qui riporto:

17Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. 

che in greco è

17Μὴ νομίσητε ὅτι ἦλθον καταλῦσαι τὸν νόμον ἢ τοὺς προφήτας· οὐκ ἦλθον καταλῦσαι ἀλλὰ πληρῶσαι.

Qua bisogna spiegare attentamente, perché solo così si potrà capire le beatitudini. Purtroppo la nostra traduzione fa pietà (scusatemi, ma è così e l’utilizzo di alcuni vocaboli non rendono bene l’idea). Per comprendere il passo bisogna capire correttamente il verbo greco καταλῦσαι che vuol dire demolire, non abolire. Quindi l’evangelista sta dicendo che Gesù non è venuto a demolire la legge, ma attenzione una legge non si demolisce. Qualsiasi giurista mi potrà dire che la legge si abroga, si abolisce (tirato, ma questo è quanto tradotto in italiano). In realtà qua si sta facendo riferimento alla demolizione fisica di qualcosa, quindi a che cosa bisogna riallacciare questo passo? Gesù, come abbiamo visto nelle Beatitudini, è venuto a proclamare la realtà del regno di Dio. E come abbiamo intuito non c’è stata acclamazione di ciò, questo perché il profeta Isaia aveva detto sul regno di Dio: "Già io vedo carovane di cammelli che portano a Ovest tasse per Gerusalemme" [cfr. Is 60,6] (cioè Israele che domina tutte le nazioni), "e ci saranno principi e re a lavorare le nostre viti" [cfr. Is 60,10-11; 61,5]. Quindi, il regno di Dio è la dominazione d'Israele verso tutti.  Gesù dice: "Beati i poveri in spirito, perché di questi è il regno di Dio" [Mt 5,3]. I poveri? Ma dobbiamo dominare l'umanità! Gesù mette in crisi cosa? Quell'attesa del regno di Dio che la tradizione aveva ancorato alla legge e ai profeti. Qui bisogna aprire una parentesi per specificare che allora per Legge s’intendeva tutto quanto presente nei primi cinque libri del vecchio testamento e per Profeti, la restante parte del VT. Quindi non va confusa con la legge Mosaica che Gesù ha abrogato (vedere mio post You have Matrix), ma va intesa nel senso del progetto che tutto il Vecchio Testamento portava con se. Quel’è questo progetto? Il regno di Dio, che veniva associato al regno d’Israele. Qui Gesù dice esattamente il contrario di quanto si aspettavano, quindi specifica: no, io non sono venuto a demolire quella costruzione del regno di Dio contenuta nella legge e nei profeti, io non sono venuto a demolirla, ma a portarla a compimento fino all'ultima virgola: ma non nella maniera che pensate voi." Il regno di Dio, contenuto e profetizzato nella legge e dai profeti - dice Gesù - io sono venuto a realizzarlo, ma non dominando: servendo gli altri. E' la grande novità! Questo è il cambio di cultura, la beatitudine, ma questo è anche ciò che porta all'incomprensione, all'ultima beatitudine.

Mi rendo conto che fare esegesi di un passo come questo, soprattutto per chi non crede in Dio (come me) è complesso. Chiedo scusa se lo ripeto, ma è importante che venga recepito il concetto: io faccio fatica a pensare all’esistenza di un essere infinitamente più grande di me, a Dio, ma un conto è ciò che penso io, un conto è fare esegesi di un passo evangelico in cui vi è intriso la cultura del Dio dei Padri. L’esegesi porta a utilizzare terminologia che a gente come me risulta ostica, ma non il concetto di amore. Se faccio fatica a credere a Dio, non riesco a far fatica a credere nell’amore che dona vita a tutti e che tutto ci circonda. Poi sono consapevole che la vita è problematica e che sembra propinare il contrario, ma questo risultato è solo causa nostra. Se noi scegliessimo di aderire alla prima beatitudine tutto si modificherebbe perché tutti noi ci rivolgeremmo a chi ci sta a fianco cercando il bene comune e non  quell’individuale, portando a tutti quel calore che l’amore, a prescindere dal credo, riesce a donare.

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