Storia dei Vangeli [4° parte (a)]

Concludiamo, dopo più di due mesi dal terzo articolo, questo veloce studio sulla storia e filologia del Nuovo Testamento (con qualche accenno anche al Vecchio Testamento).
In quest’ultimo episodio tocchiamo la parte più tecnica di tutte. Abbiamo visto, facendo una breve panoramica, come il N.T., che oggi conosciamo, sia il risultato di anni di ricerche nel tentativo di ricostruire il testo più autentico, come si è sviluppata la traduzione dal greco al latino, con le conseguenze che questo ha prodotto, e come ci siano passi la cui interpretazione dipende dalla lezione che si adotta. 
In quest’ultimo articolo trattiamo di come si sceglie, tra diverse lezioni disponibili, quella più adatta affinché sia “bollata” come l’originale. Con questo articolo abbiamo formalmente affrontato, in maniera superficiale, tutti gli aspetti della travagliata storia di questo testo che da oltre duemila anni affascina, in senso positivo, come in senso negativo, il genero umano.
Solo a un paio di quesiti non daremo una risposta, perché sarà oggetto di un’altra trattazione, i vangeli raccontano la storia di Gesù, oppure sono da leggere in un’altra ottica? E se sono stati redatti successivamente la morte di Cristo (dal 50-80 d.C. in poi) cosa riportano di verso su questo personaggio e cosa è giustificazione post-morte? A queste due domande dedicheremo una saga di articoli successivamente. Qui mi pongo l’obiettivo di farvi comprendere come si è lavorato negli ultimi duecento anni affinché si giungesse ad avere un testo per un buon 95% conforme all’originale.

I documenti più autorevoli e completi, testimoni fondamentali del NT, che vengono utilizzati come base per cercare di risalire il più possibile a quello che doveva essere il testo originario dei libri del Nuovo Testamento, così come era tra il II e il III secolo, sono essenzialmente il Codex Vaticanus detto anche Codice B (della prima metà del IV secolo), il Codex Sinaiticus (metà del IV secolo) detto anche codice א (aleph, dalla prima lettera dell’alfabeto ebraico) i papiri di Chester Beatty – in particolare il papiro P45, del III secolo d.C., che purtroppo è in pessimo stato di conservazione e il papiro delle lettere di San Paolo, il P46, della fine del II secolo – il papiro di Bodmer XIV-XV (P75) scritto all’inizio del III secolo e il papiro di Bodmer P66, dello stesso periodo di P75, che contiene quasi per intero il Vangelo di Giovanni. Questi documenti in virtù della loro antichità e del loro contenuto offrono notevoli garanzie che il testo in essi contenuto non è stato troppo corrotto e sono sufficientemente concordi tra loro (soprattutto il Codex Vaticanus e il papiro P75) secondo i principi della moderna critica testuale. Questi testimoni sono stati scelti sulla base della loro antichità e soprattutto della loro qualità testuale, emersa secondo recenti studi. Ma il numero di tutti i documenti del Nuovo Testamento esistenti è elevatissimo, oltre cinquemila manoscritti e migliaia di traduzioni di questi in lingue antiche diverse dal greco, lezionari per uso liturgico, citazioni dei Padri della Chiesa.

Oltre ai codici onciali e ai grandi papiri esistono anche altri frammenti papiracei ancora più antichi dei codici pergamenacei; essi contengono purtroppo solo piccole porzioni di testo contenenti poche lettere, come il papiro di Rylands P.Ryl.Gk. 457 = P52, scritto nella prima metà del II secolo, il papiro di Magdalen P64 del II-III secolo o i frammenti rinvenuti presso il sito archeologico di Oxyrhynchus tra il XIX e il XX secolo, i più antichi dei quali – per quanto concerne il Nuovo Testamento – sono stati datati paleograficamente tra il II ed il III secolo. Questi frammenti sono tuttavia molto importanti a livello archeologico in quanto una loro identificazione getta luce sui seguenti problemi:
  • consentono di avanzare ipotesi sulle date di stesura dei testi originali del Nuovo Testamento; per esempio se si potesse provare senza dubbi tecnici che il frammento di rotolo denominato 7Q5 e rinvenuto a Qumran è davvero un frammento del Vangelo di Marco, come per primo ha sostenuto il papirologo J. O’Callaghan a partire dal 1972, allora si dovrebbe concludere che già nel I secolo d.C. e in particolare prima della distruzione del tempio di Gerusalemme questo Vangelo era già stato scritto addirittura in lingua greca. Per ora possiamo affermare con sicurezza che verso la prima metà del II secolo d.C. sicuramente esisteva già una versione in greco del Vangelo di Giovanni, attestata dal papiro di Rylands P52: poiché il Vangelo di Giovanni – secondo la tradizione – è stato scritto verso la fine del I secolo o al più subito all’inizio del II secolo, si può affermare che tra l’originale e il frammento P52 è passato un arco di tempo veramente molto breve, inferiore a cinquant’anni. Nessun’altra opera dell’antichità ha uno scarto temporale così breve tra l’originale e il più antico frammento disponibile. Analogamente la datazione al I secolo d.C. dei frammenti di Magdalen proposta da Carsten Peter Thiede se fosse univocamente accettata dalla comunità scientifica internazionale proverebbe che nel I secolo esisteva già una versione greca di un testo molto simile all’attuale Matteo.
  • Forniscono una misura dell’attendibilità della trasmissione del Nuovo Testamento: se da poche lettere è possibile stabilire che un frammento apparteneva ad un dato testo, questo significa che la trasmissione di molti passi del NT, almeno il brano attestato dal frammento, cioè la porzione di testo circostante le lettere identificate, è stata eccellente. Poche lettere del papiro P52 possono essere fatte coincidere con pochissime varianti note e universalmente accettate con il testo greco odierno di Giovanni, tutto questo dopo duemila anni di storia. 
  • Particolarmente significativa è poi la presenza della nomina sacra riferita a Gesù. L’abbreviazione del nome infatti è una prova che Gesù veniva considerato una divinità – non soltanto un profeta, quindi, ma qualcosa di più – da chi aveva scritto il documento. Scoprire frammenti molto antichi nei quali compaia la nomina sacra, come il papiro di Magdalen, consente di gettare luce sulla divinità di Gesù e sul rapporto di essa con i primi cristiani.

L’individuazione di alcuni manoscritti base per ricostruire il testo greco originale del Nuovo Testamento, andato perduto, e il conseguente abbandono di altri è il frutto del lavoro degli studiosi di critica testuale e del confronto di decine e centinaia di manoscritti tra di loro per stabilire quali sono i migliori candidati. Quest’operazione iniziò sul finire del XIX secolo per opera di due studiosi inglesi, Westcott ed Hort, che hanno aperto la via per lo studio scientifico del testo del Nuovo Testamento. Nel compiere questa selezione e nell’applicare le regole della critica testuale si sono naturalmente operate delle scelte anche drastiche che alcuni, soprattutto gli studiosi e i teologi di scuola protestante e anglicana, non hanno condiviso. Vedremo nel seguito in cosa consistono le ipotesi e i principi base del metodo di lavoro di Westcott ed Hort che dalla fine del XIX secolo influenza – di fatto – tutte le revisioni dei testi sacri e quindi ha un impatto decisivo su quello che leggono e apprendono milioni di cristiani in tutto il mondo.

  
Nel V secolo San Girolamo (340-420 d.C. circa) preparò la Vulgata, cioè la traduzione in latino della Bibbia greca dei LXX e del Nuovo Testamento, che rimase per molti secoli il testo ufficiale della Bibbia per la Chiesa Cattolica. Prima di San Girolamo esistevano altre versioni in latino del Nuovo Testamento, oggi chiamate in gergo vetus latina; queste antiche versioni latine, già nel IV-V secolo, cominciavano a evidenziare alcune differenze più o meno significative tra loro per cui si pose il problema di rivedere e controllare il testo. La Vulgata venne ricavata traducendo i manoscritti greci ed ebraici disponibili in quel periodo. Già San Girolamo quindi affrontò il problema di tradurre il Nuovo Testamento (nel suo caso in latino) e confrontare diversi manoscritti, scontrandosi peraltro con una miriade di versioni diverse tra loro, all’epoca essenzialmente quelle della vetus latina e dei codici greci (vedere nostri precedenti articoli). Lo studio scientifico moderno dei testi cristiani nasce però con Erasmo da Rotterdam (1469-1536) nel XVI secolo e con l’invenzione della stampa. Erasmo pubblicò nel 1516 la prima edizione critica stampata del Nuovo Testamento in greco, che divenne subito un punto di riferimento molto importante e in particolare fu la base per il testo “ufficiale” del Nuovo Testamento in Gran Bretagna e per il Textus Receptus delle Chiese della riforma. Successivamente ci sono stati molti altri studi critici del Nuovo Testamento, anche perché nel frattempo venivano ritrovati nuovi manoscritti e frammenti che consentivano di aggiornare e rivedere il complesso lavoro di ricostruzione e confronto iniziato da Erasmo e proseguito nei secoli successivi.

Fu però la scoperta del Codex Sinaiticus da parte di Von Tischendorf in un monastero ortodosso del Monte Sinai e la sua successiva pubblicazione (avvenuta nel 1861) a dare un fortissimo impulso allo studio critico e scientifico del Nuovo Testamento. Von Tischendorf stesso fu un grande filologo. Alla fine del XIX secolo gli studiosi inglesi  Brooke Foss Westcott (vescovo di Durham) ed Fenton J.A. Hort (professore a Cambridge) la cui opera è stata ed è tuttora fondamentale per la critica testuale del N.T., pubblicarono il loro studio critico del Nuovo Testamento, The New Testament in the Original Greek (1881), catalogando per affinità testuale e sfere di influenza geografica l’immensa mole di manoscritti e documenti del NT in quattro categorie dette famiglie testuali. I due studiosi applicarono al NT i tipici metodi di studio della moderna critica testuale, metodi impiegati per ricostruire i testi degli autori classici greci e latini (come Omero e Platone), cercando d’individuare l’esistenza di manoscritti il più possibile vicini a quelli che dovevano essere gli originali (cioè le prime copie di un testo così come le voleva il suo autore). Il loro procedimento creò non poche polemiche, tuttora vive, sia da un punto di vista tecnico che teologico – si può mai applicare la scienza alla Parola di Dio? – ma alla fine prevalse il metodo scientifico che oggi è alla base delle traduzioni del NT in tutto il mondo: non è quindi una cosa da poco. Avendo a disposizione moltissimi manoscritti (migliaia) quasi tutti diversi e discordi tra loro (per poche lettere o per interi passi) si pone il problema di definire delle metodologie per stabilire quale manoscritto ha la maggior probabilità di avere ragione e relativamente a quale punto. Bisogna selezionare un gruppo di manoscritti omogeneo  e il meno corrotto possibile che aiuti a ricostruire e a correggere il testo facendo tabula rasa delle interpolazioni e delle aggiunte successive. Per individuare quali sono le varianti da accettare per ricostruire il testo esistono criteri esterni (al testo) e criteri invece definiti interni. 


I criteri esterni prendono in considerazione l’antichità dei manoscritti ma soprattutto la loro qualità testuale che viene valutata confrontando il contenuto dei manoscritti tra loro senza prendere in considerazione la consistenza interna del testo. Come abbiamo detto i manoscritti vengono suddivisi in varie famiglie testuali e questo processo utilizza il metodo genealogico: il maggior numero possibile di manoscritti viene esaminato e confrontato con gli altri per evidenziare le varianti da un testo all’altro e stabilire una discendenza tra i manoscritti. I manoscritti che sono simili tra loro nel testo e hanno le stesse varianti derivano genealogicamente da uno steso filone della trasmissione del testo e il loro studio e confronto è utile per risalire al testo più antico caratteristico di quel determinato filone. Data la mole di documenti del NT questo lavoro è particolarmente complesso e offre molte sfaccettature e casi particolari. In questo modo è possibile avere un’idea dei legami testuali che intercorrono tra i documenti e risalire agli antenati dai quali sono nate altre copie secondo una specie di albero genealogico in cui gli archetipi (gli antenati, dai quali sono nati gli altri manoscritti per aggiunta o modifica di materiale) sono i documenti considerati più attendibili e antichi.  La metodologia dei confronti genealogici riguarda quindi, più che altro, il confronto dei manoscritti tra loro, la loro classificazione, la localizzazione per aree geografiche  e consente di stabilire se esistono filoni di manoscritti nati per aggiunta di materiale e per armonizzazione di lezioni discordanti o diverse, manoscritti considerati di conseguenza meno attendibili. Già Westcott ed Hort hanno individuato quattro categorie testuali per il Nuovo Testamento, il testo neutrale-alessandrino (H), che secondo questi studiosi è il migliore e quello che offre le maggiori garanzie di essere una buona copia degli originali, il testo bizantino-koinè (K), considerato il più tardo e meno attendibile, il testo occidentale e il testo alessandrino-cesariense. 


Testo neutrale-alessandrino (H) – Si è ipotizzato che i manoscritti di questa classe derivino dalla recensione di Esichio di Alessandria, da cui l’abbreviazione H assegnata a questo gruppo testuale. Questa revisione del testo del N.T. sarebbe avvenuta in Egitto verso all’inizio del IV secolo. Fanno parte di questa categoria due manoscritti completi molto autorevoli, prodotti nel IV secolo: il Codex Vaticanus (Codice Vaticano B) e il Codex Sinaiticus ritrovato da Von Tischendorf in un monastero del Monte Sinai, caratterizzati secondo W.-H. da una significativa affinità testuale. Questi due codici sono stati scritti probabilmente durante o dopo il periodo delle postulate “recensioni” di Esichio, tuttavia hanno una buona somiglianza con quanto contenuto in documenti più antichi scritti prima del IV secolo e scoperti solo nel XX secolo, quali il papiro P45 (Chester Beatty I, dell’inizio del III secolo), il papiro contenente le lettere di Paolo P46 (Chester Beatty II, fine del II secolo), ma soprattutto con il papiro P75 (Bodmer XIV-XV, del II secolo). Una relazione speciale sussiste tra il Codex Vaticanus (325 d.C. circa) ed il papiro P75 (175-225 d.C. circa) in quanto il testo del P75 è quello più simile a quello del codice B tra tutti i manoscritti esistenti e viceversa: questo dimostrerebbe che B non ha subito delle rielaborazioni massicce e radicali tali da stravolgere il suo contenuto. La scoperta di P75, oltretutto, è avvenuta abbondantemente dopo la pubblicazione dei lavori di W.-H. quindi sarebbe una prova della bontà del metodo da loro applicato. La postulata recensione di Esichio non deve essere stata di fatto molto radicale e comunque non dovrebbe aver influito in maniera drastica sui papiri collocabili in questa categoria testuale. Per questa ragione Westcott ed Hort hanno ritenuto che i manoscritti di questa famiglia siano molto autorevoli e vicini agli originali o almeno vicinissimi al testo che circolava all’inizio del II secolo dopo Cristo. Il testo H quindi risulterebbe relativamente libero dalle armonizzazioni, dalle parafrasi e tendenzialmente corto. Se una lezione è attestata in questi manoscritti generalmente è considerata molto autorevole dalla critica testuale moderna, almeno secondo i principi proposti da W.-H. Le citazioni del NT di padri della Chiesa quali Clemente di Alessandria (150-215 d.C. circa) e, in parte, Origene (185-250 d.C. circa) sembrano inquadrabili in questa classe testuale. Schematicamente possiamo dire che i documenti di questa classe contengono secondo Westcott-Hort MATERIALE ORIGINALE CON POCO O POCHISSIMO MATERIALE SPURIO. 

Testimoni primari di questa famiglia sono i codici onciali B (Codex Vaticanus, 325 d.C. circa, ad eccezione delle lettere di Paolo), א (Codex Sinaiticus, 370 d.C. circa, escluso Apocalisse), A (Codex Alexandrinus, V secolo, relativamente alle lettere di Paolo, epistole cattoliche, Apocalisse), C (Codice Ephraemi Rescriptus, palinsesto del V secolo, per quanto riguarda le lettere di Paolo e l’Apocalisse), W (Codice di Washington, V secolo, limitatamente al Vangelo di Giovanni e ai primi capitoli di Luca); 33 (manoscritto in greco “minuscolo” del IX-X secolo, soprattutto nelle lettere di Paolo e nelle epistole cattoliche) ed altri minuscoli quali (per i soli Vangeli): 892, 1241 o 579 (escluso Mt); papiro P75 (200-250 d.C., contiene solo i Vangeli di Luca e Giovanni), papiro P72 (III-IV secolo, epistole cattoliche), papiro P66 (125-200 d.C., contiene il Vangelo di Giovanni; manoscritto pieno di errori e poco professionale), papiro P45 (200-250 d.C.) contenente i Vangeli e gli Atti,  da molti studiosi non è considerato esclusivamente neutrale, probabilmente gli antenati derivano da questa classe ma il manoscritto ha subito influenze derivanti sia dalla famiglia occidentale che da quella cesariense ed è considerato testo libero, con significative licenze dal testo neutrale-alessandrino. Sono considerate alessandrine anche le versioni in lingua copta denominate copto-sahidica (sa) e copto-bohairica (bo). Secondo il Merk-Barbaglio nei Vangeli sono di tipo alessandrino anche i codici L, D e Y (quest’ultimo limitatamente a Mc, Lc e Gv). 

Famiglia proto alessandrina. Il papiro P46 (180-200 d.C.) ha una forte affinità testuale con la parte di B contenente le lettere di Paolo; entrambi i manoscritti hanno quindi dato luogo a una famiglia detta proto alessandrina o P46+B che viene considerata distinta dal testo neutrale vero e proprio; per le lettere di Paolo il papiro P46 è considerato molto significativo. Il testo di questa classe è alquanto rozzo e primitivo, probabilmente molto antico.

Quelli precedentemente elencati sono documenti importantissimi in quanto sono i testimoni fondamentali utilizzati dalla moderna critica testuale per ricostruire il testo del Nuovo Testamento. Dall’analisi di questi rappresentanti qualificati si ricostruisce il testo del NT e il risultato dell’operazione è un testo che si avvicina molto al NT così come doveva essere almeno nel II secolo, nelle copie più vicine a quelle originali scritte forse in ebraico nel I sec. e quindi tradotte in greco (quest’ipotesi è allo studio ed è oggetto di forte dibattito).

Testo occidentale (D) – Molto antico (II secolo), era diffuso soprattutto in occidente (Europa e Africa nord occidentale) da cui deriva il nome. E’ rappresentato ad esempio da D (05) (il Codex Bezae-Cantabrigensis, VI secolo, onciale greco) dal Codex Claromontanus D (06) (onciale greco del VI secolo) e soprattutto dalla vetus latina vl, l’insieme delle versioni in latino antecedenti la Vulgata di San Girolamo. Rientrano in questa famiglia le citazioni del Nuovo Testamento dei più antichi padri occidentali (o meglio: non alessandrini) come Marcione (85-160 d.C. circa), Giustino Martire (100-165 d.C. circa), Ireneo di Lione (140-200 d.C. circa), Tertulliano (155-245 d.C. circa). Sebbene sia considerato indipendente dal testo neutrale-alessandrino, dagli altri tipi di testo e sia inoltre molto antico, questo tipo di testo presenta una certa tendenza alla armonizzazione e alla parafrasi e conterrebbe aggiunte ed omissioni significative rispetto agli originali. In particolare si nota nei manoscritti di questa categoria la tendenza a introdurre materiale leggendario mutuato dalla tradizione orale e popolare, certamente sorto fuori dagli originali, oltre alle glosse o annotazioni degli scribi. Il libro degli Atti degli Apostoli nei manoscritti di questa classe è alquanto diverso dalle versioni neutrali-alessandrine, tanto che alcuni studiosi parlano addirittura di due diverse edizioni di quel libro. E’ interessante notare che Ireneo di Lione, inquadrabile in questa categoria testuale, cita il finale di Marco oggi noto in un suo scritto e quindi ne era a conoscenza già nel II secolo mentre ad esempio il Codex Vaticanus o il Codex Sinaiticus (della famiglia neutrale) non lo riportano affatto, seppure scritti abbondantemente dopo Ireneo. Anche l’episodio dell’adultera in Giovanni è contenuto in manoscritti di questa classe ma non nei manoscritti del gruppo H. Il materiale del testo occidentale, in particolare il corpus della vetus latina, che è inquadrabile in questa classe testuale, sarebbe stato utilizzato e soprattutto rivisto nel V secolo per la Vulgata latina commissionata dal Papa Damasco (verso il 380 d.C.) a San Girolamo proprio per i dubbi legati alla affidabilità e alla coerenza delle antiche traduzioni in latino del gruppo vetus. La classe occidentale contiene però una buona percentuale di materiale ritenuto autentico, spesso molto antico, e si può schematizzare come MATERIALE ORIGINALE CON MATERIALE SPURIO (TRADIZIONI ORALI O SCRITTE EXTRA NT) E CON GLOSSE E NOTE INGLOBATE NEL TESTO. 

Testimoni primari di questa famiglia sono: D (05) (Codice Bezae Cantabrigensis, VI secolo, Vangeli e Atti degli Apostoli, è il prototipo per eccellenza di questa famiglia che deriva da esso la sigla “D”), D(06) (Codex Claromontanus, VI secolo, lettere di Paolo), F (Codex Augiensis, IX sec., lettere di Paolo), G(012) (Codex Boernerianus, IX sec., lettere di Paolo), vetus latina vl , vetus syra .

Testo alessandrino-cesariense (C) – E’ un testo alquanto accurato nelle forma ma con influenze miste derivanti sia dal testo occidentale che dal testo neutrale H (B.H. Streeter), anche se l’interesse sembra più rivolto al miglioramento delle forme grammaticali e stilistiche che ad altre manomissioni (armonizzazioni). Nella sostanza si può definire moderatamente parafrasato. Ne fanno parte ad esempio il Codex Koridethianus Q (VII-X secolo, un manoscritto georgiano o armeno molto caratteristico perché sembra che le lettere greche siano state “dipinte” piuttosto che scritte, come se l’autore non conoscesse bene il greco scritto) e alcuni altri manoscritti armeni e georgiani. Secondo alcuni studiosi il papiro P45 (200-250 d.C.) sarebbe più correttamente inquadrabile in questa famiglia testuale se non proprio come testo cesariense almeno come proto cesariense. Tra i padri della Chiesa che sembrano collocabili in questa categoria testuale si segnalano Origene (185-250 d.C. circa) nelle opere composte a Cesarea ed Eusebio di Cesarea (265-340 d.C. circa) e questo ha dato origine all’aggettivo “cesariense”. La classe – che è ancora oggetto di studio e addirittura non tutti gli studiosi ne ammettono l’esistenza – ha alcune varianti proprie e caratteristiche non inquadrabili nel testo alessandrino e nel testo occidentale; la lezione più celebre è quella di Gesù Barabba in Matteo 27:16-17 che contraddistingue a esempio Q e pochissimi altri manoscritti. La classe contiene quindi MATERIALE ORIGINALE CON MATERIALE SPURIO MODERATAMENTE INTERPOLATO.

Testimoni primari di questa famiglia: Q (Codex Koridethianus, VII-X sec.), f1, f13, 565, 700, arm., geo., secondo alcuni studiosi anche W (Codice di Washington, V secolo, limitatamente a Marco) e P45 (il testo del P45, tuttavia, è molto libero e selvaggio).

Testo bizantino-koinè (K) – Questa famiglia testuale è stata fatta risalire da W.-H. ad una recensione del Nuovo Testamento eseguita dalla scuola di Luciano di Antiochia (235-312 d.C. circa) in Siria verso la fine del III secolo (probabilmente tra il 250 d.C. ed il 350 d.C.) che sembra essere testimoniata anche da San Girolamo (340-420 d.C. circa):

S. Girolamo, De Viribus Inlustribus, LXXVII – [Luciano] Uomo di grandissima cultura, prete della chiesa di Antiochia e tanto profondo nello studio delle Sacre Scritture che alcuni esemplari delle medesime sono fino a oggi detti lucianei (…) Subì il martirio per la fede in Cristo a Nicomedia, durante la persecuzione di Massimino.

A queste date si perviene anche considerando che nessuna citazione dei padri della Chiesa anteriore al 350 d.C. circa può essere fatta risalire a questa classe testuale: il primo autore inquadrabile nel contesto bizantino K sarebbe, secondo il Prof. Hort, Giovanni Crisostomo (350-407 d.C. circa) nativo di Antiochia e vescovo di Costantinopoli. Luciano, vescovo di Antiochia, aveva fondato in questa città verso il 270 d.C. un’importante scuola di teologia, la cosiddetta scuola antiochea, e si pensa che da questa corrente sia nata a un certo punto una revisione dei testi delle scritture. Questa scuola era molto attaccata al testo sacro e propugnava la teoria della sua interpretazione letterale il più possibile fedele. Questo di per sé può anche sembrare un pregio, tuttavia è possibile che i revisori di Luciano ad un certo punto, trovandosi di fronte a tante versioni della scrittura che discordavano in parte tra loro, anziché fare chiarezza abbiano armonizzato le varie versioni discordi in modo da produrre un testo unico che mettesse d’accordo tutti e avesse un buono stile letterario, partendo dal presupposto che qualunque testo ha la sua parte di “verità” e se due varianti dicono una A e l’altra B è meglio riportare A+B piuttosto che perdere una variante tralasciando A ovvero B od entrambe le lezioni. Luciano è stato anche un martire, un uomo degno del massimo rispetto per la sua fede, che era davvero grande, e per le sue idee: come riporta anche San Girolamo, durante la persecuzione di Massimino, che proseguì la campagna di terrore contro i cristiani iniziata da Domiziano nel 303 d.C., venne imprigionato per costringerlo ad abiurare il cristianesimo e infine fu giustiziato nel 312 d.C., soltanto un anno prima dell’editto di Costantino.

Per Hort questa recensione sarebbe tale nel vero senso della parola: una modifica sostanziale posta in essere per riaggiustare e armonizzare i testi e non dovuta al semplice processo di trasmissione normale dei documenti. Dev’essere comunque chiaro che l’ipotesi della revisione orientale, basata soprattutto sulla testimonianza di San Girolamo, è stata solo postulata e non è possibile dimostrarla storicamente senza dubbi. In termini puramente numerici è un dato di fatto che la stragrande maggioranza dei manoscritti esistenti, circa il 90%, appartiene a questa famiglia testuale. Questo testo circolava anticamente nelle chiese orientali dell’Asia Minore ed è stato alla base del Textus Receptus (XVI secolo) delle chiese riformate. Il Receptus è stata la prima versione del NT a essere stampata ed è prevalso fino al XIX secolo. I manoscritti della classe bizantina (due esempi importanti sono il Codex Alexandrinus A – limitatamente però ai quattro Vangeli – ed il Codice di Washington W) sono caratterizzati da un testo greco più elegante e “moderno” rispetto ai documenti più antichi. Ma com’è stato ottenuto tutto ciò? Secondo W.-H. cambiando alcuni vocaboli, armonizzando passi paralleli e così via, aggiungendo parole o materiale, corrompendo quindi il testo precedente e in particolare il materiale originale che conteneva. L’alterazione (presunta) non riguarda i punti dottrinali chiave del cristianesimo, non si deve pensare certo che i manoscritti bizantini inventino o aggiungano chissà cosa, tuttavia è significativa. Si pensa che la postulata revisione siriaca o “Lucianea” sia stata eseguita perché ad un certo punto ci si rese conto che le copie del NT che circolavano non erano più conformi e concordi in tutto tra loro poiché si era aggiunto pian piano materiale ai documenti più antichi: l’errore, se così si può dire, della scuola di Luciano di Antiochia sta nel fatto di aver accettato tutto il materiale spurio accumulatosi nei due secoli precedenti, uniformando sì tra loro le nuove copie del NT, ma senza cercare di individuare e quindi tagliare il materiale interpolato. Questa tendenza a raccogliere in un testo un po’ tutte le versioni circolanti è detto processo di conflazione. Per queste ragioni i documenti di questa classe sono considerati da Hort meno affidabili di quelli della famiglia neutrale-alessandrina e meno affidabili di qualunque altra categoria testuale. Schematicamente questa classe contiene quindi MATERIALE ORIGINALE CON MOLTO MATERIALE SPURIO (ARMONIZZAZIONI). 

Nel manuale di critica testuale Merk-Barbaglio è scritto nelle pagine introduttive:

“La recensione lucianea (K) è ritenuta per lo più – e non senza ragione – dai critici di valore inferiore, perché infetta di lezioni risultanti da processi di armonizzazione e si pensa che il suo modo di dire si sia conformato di più alla lingua letteraria. Tuttavia si nota che in essa sono presenti come superstiti lezioni molto antiche, il che appare comprovato dai papiri di Chester Beatty. J.H. Vogels pensa che la recensione Lucianea sia superiore alle altre e in essa valuta assai soprattutto la Volgata di Girolamo, in quanto questi asserisce di aver usato codici antichi (greci). Ma d’altra parte è anche vero che Girolamo, nel correggere la vetus latina, ha lasciato intatte molte cose. Si può infatti mostrare che certi codici della vetus latina spesso concordano tra di loro contro la Volgata e che gli stessi codici in altri luoghi mantengono la stessa lezione insieme con la Volgata. Ma non è verosimile che tutti quei codici dipendano egualmente dalla Volgata in queste lezioni. Perciò è necessaria grande circospezione nel giudicare il valore critico della Volgata.”

Alcuni testimoni di questa famiglia: A (escluso epistole cattoliche ed Apocalisse), E, F, G, H, K, M, S, U, V, ecc… (per i Vangeli), W  (limitatamente al solo Matteo e a gran parte di Luca), H, L, P, 049, 056, 0142 (Atti), K, L, 049, 056, 0142 (lettere di Paolo ed epistole cattoliche), P, 046 (Apocalisse). La famiglia bizantina di fatto raggruppa da un punto di vista numerico la quasi totalità dei manoscritti del NT. Quasi tutti i manoscritti (greci) in minuscolo sono bizantini.

Per il momento chiudo qui questa prima parte della quarta puntata. Nell'ultimo articolo di prossima pubblicazione (più corto) parleremo dei criteri interni qui non trattati per evitare di tediarvi troppo.

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